Il governo alla ricerca di un’idea di Paese

Anche in questa circostanza, il Pd si è proposto come partito «di sistema». Poco importa, dal punto di vista dei suoi dirigenti, se supera il 40% o crolla sotto il 20: noi — ragionano — siamo gli unici che l’Europa considera affidabili, siamo gli interlocutori naturali di Merkel e Macron; già il nostro ritorno al governo tranquillizza i mercati e gli alleati. Il che, a guardare lo spread e i toni flautati di Bruxelles, potrebbe anche rivelarsi vero. Ma non basta. Non basta a un Paese a crescita zero, da cui continuano ad andarsene troppi giovani diplomati e laureati a spese del contribuenti, e in cui continuano ad arrivare troppi disperati facile preda del crimine organizzato o degli affaristi in nero.

Un governo dovrebbe avere un’idea di Paese. Un progetto condiviso per costruire l’Italia del 2023. Idee forti sul lavoro, sull’autonomia del Nord e la ripresa del Sud, sulla scuola, sulla giustizia. Soltanto così il governo potrà mettere radici nell’opinione pubblica e reggere la guerriglia di Salvini; che appare ancora frastornato dagli eccessi estivi, ma conserva un ampio consenso, e ora ha conquistato un posto-chiave come la presidenza del Copasir, il comitato che controlla i suddetti servizi segreti.

I 5 Stelle non appaiono interessati a fare chiarezza sul futuro di quel neonato così gracile che è il secondo governo Conte. Ieri Casaleggio e Di Maio hanno respinto seccamente la mano tesa di Zingaretti, che intervistato da Lilli Gruber aveva aperto a una vera alleanza politica. Un rifiuto legittimo, per carità. Ma il Movimento oggi appare dilaniato all’interno, scettico sul futuro, incerto sul proprio destino. Non si capisce se comandino Conte o Di Maio, Grillo o Casaleggio. Se Di Battista sia dentro o fuori, se le richieste di Fico saranno accolte. Se l’esperimento umbro — un candidato «civico» comune con il Pd — rappresenti uno schema o un azzardo. Insomma, i grillini non sono riusciti né sembrano intenzionati a dare un contenuto politico-culturale alla svolta con cui in cinque giorni sono passati da Salvini alla Boldrini, dalla Lega alla sinistra.

Il prossimo sarà il week-end di Renzi. Alla Leopolda farà quello che gli riesce meglio: conquistare la scena, lanciare nuove parole d’ordine, suscitare entusiasmi e inquietudini. Ma la sua ansia di visibilità è destinata a indebolire ulteriormente un esecutivo che sembra reggersi sull’antico motto di Andreotti: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Poi venne il 1992, e la nostra piccola rivoluzione italiana.

La premessa per costituire un ciclo politico duraturo, anziché limitarsi a prendere tempo in attesa dell’ineluttabile arrivo dei barbari, sarebbe una manovra finanziaria coraggiosa. Quella annunciata si limita a non aumentare l’Iva. Scelta necessaria, ma non sufficiente. Nella vita delle famiglie non cambierebbe nulla. Serve ben altro per scuotere il Paese dalla crescita zero. Gli industriali lombardi, che hanno accolto Conte con educazione ma senza convinzione, hanno indicato la strada: meno tasse e meno assistenzialismo, più investimenti e più incentivi per chi vuole lavorare di più. Detassare gli aumenti salariali sarebbe un segnale interessante; certo migliore di qualsiasi misura parametrata sui redditi dichiarati, che finirebbe per punire la fedeltà fiscale e premiare gli evasori che si vorrebbero combattere.

L’Italia della fine degli Anni Dieci resta un Paese di cattivo umore, con poca fiducia in se stesso. Ma non è un malato inguaribile. È un paziente che ha bisogno di uno choc: tagli al fisco oppressivo e alla burocrazia che si autoalimenta, investimenti sulla formazione e sulle infrastrutture, per consentire alle famiglie di spendere di più e alle imprese di competere meglio.

Questo non significa sottovalutare il peso del debito pubblico. Ma, con il calo dei tassi e la crescita del debito in quasi tutti i Paesi europei, la nostra priorità — più dei tagli — dovrebbe essere la crescita. O, meglio, il lavoro. Che porta con sé la vera crescita, che non è solo economica ma morale. Dopo la guerra vennero prima la ricostruzione e poi il boom. Dopo la lunga crisi non può venire semplicemente un’altra crisi, economica e politica. Gli italiani meritano molto di più. Non basta tagliare i seggi per trasformare una casta in classe dirigente.

CORRIERE.IT


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