Pd, Scissione di Palazzo

Eccola, la scissione di Palazzo dell’ex rottamatore, dopo la manovra di Palazzo che ha portato alla nascita del governo Conte, innescata sempre dallo stesso protagonista. Scissione senza il fuoco vivo della storia, il grande fatto, il pathos, le folle, le bandiere, e, diciamolo, i voti, nell’era della grande rimozione del popolo vero. Fredda come un’operazione di potere, l’ennesima. Da ceto politico posseduto, non da oggi, dal revanchismo narcisistico. Scissione, in fondo, anche lucida nella logica vendicativa dell’uomo, perché è chiaro quale sia il disegno: Renzi esce, per indossare i panni del “Salvini riformista”, controcanto quotidiano di una maggioranza troppo spostata a sinistra, ma tiene parecchi uomini legati a doppio filo a sé dentro il Pd, a partire dal capogruppo al Senato Andrea Marcucci. E la sua forza fuori è legata anche al potere di condizionamento dentro. Vedremo quanti lo accuseranno di aver sfasciato il Pd e quanti soloneggeranno con la melensa retorica del “comunque siamo alleati” e del “comunque siamo uniti contro la destra”.

L’annuncio di Renzi è fissato per martedì 17 (con scarsa considerazione per la scaramanzia, altro indicatore di ego solido): prima un’intervista a Repubblica, per parlare alla sinistra, poi la solita passerella nel solito studio di Vespa su quelle sedie bianche che fanno tanto immortalità del potere e status. Eccolo, il “me ne vado dal Pd”. Adesso che è scongiurato il rischio delle urne e ha piazzato i suoi nel governo, pochi o tanti che siano. Governo che evidentemente non rischia e non rischierà nel breve periodo, come ha fatto sapere l’ex premier a Conte ma che si reggerà su una maggioranza a più gambe, fisiologicamente competitive, chissà quanto litigiose, tra loro. Inevitabilmente, uno scenario più destabilizzato, come prevedibile.

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