L’assedio

Per ora Zingaretti non cede, tiene il punto, consapevole che accettare Conte sarebbe una resa. A palazzo Chigi l’avvocato dell’alleanza gialloverde, folgorato sulla via di Damasco dell’anti-salvinismo fuori tempo massimo. E il Pd trascinato sulle posizioni di Matteo Renzi, che a quel punto se lo sarebbe ripreso “politicamente”, in nome del governo a tutti i costi.

Ecco, è il momento della verità, per il segretario del Pd. Quello della scelta su cui un leader si gioca tutto: storia, convinzioni, leadership, missione su cui è stato investito da quel popolo che, alle primarie, lo ha unto democraticamente in nome di una “alternativa” al governo gialloverde, in cui i gialli erano complici dei verdi nella più grande svolta a destra degli ultimi anni, mai messa in discussione da una parola di autocritica. È il momento anche della solitudine nella scelta: forzare, assumendosi il rischio di una iniziativa, o mediare tra le correnti. Perché la spinta governista, all’interno del Pd (e anche fuori), assomiglia ormai a un assedio. Assedio che si materializza nelle dichiarazioni che Zingaretti rilascia al metà pomeriggio alla stampa, quando torna a scandire le parole chiave “discontinuità” e “cambio di persone”, come presupposti per un governo di “svolta”, ma non pronuncia quelle parole che farebbero scorrere i titoli di coda del negoziato, dopo che Di Maio ha messo a verbale il suo ultimatum su Conte. Il “no a Conte”, così esplicito, non lo dice.

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