Matteo Renzi e quel patto col diavolo: tutto pur di non morire

di Emiliano Fittipaldi

A metà maggio Luca Lotti, parlando del suo capo politico e amico Matteo Renzi, sembrava avvilito. Quasi sconfortato. «Matteo? È fermo da una parte. È fermo lì, a guardare», spiegava a Luca Palamara, il pm romano indagato per corruzione. «La vicenda dei genitori l’ha colpito… e ora ha un’immagine ancora molto graffiata. Non ha un’immagine positiva, c’è poco da fare. E non ha ritrovato il filo. Dopodiché, è l’unico che ha i numeri per ritrovarlo, il filo…».

Nemmeno tre mesi dopo, la sera dell’8 agosto, Renzi ha smesso di aspettare, e un filo l’ha ritrovato davvero. Ascoltando in tv l’altro Matteo che dal palco di Pescara bombardava il governo gialloverde, l’ex premier è sbiancato, intuendo in tre secondi che rischiava di perdere tutto. Al senatore semplice di Firenze e Scandicci, però, non mancano né cinismo né tempi di reazione. Così (raccontano i suoi estimatori) gli sono bastati altri due minuti per capire che, per sopravvivere, lui sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa. Rischiare di sfasciare il Partito democratico, umiliare il suo segretario Nicola Zingaretti, e allearsi con i suoi peggiori nemici, i Cinque Stelle di Luigi Di Maio e Beppe Grillo. «I cialtroni», cioè, che insultavano i suoi genitori dopo i clamorosi arresti per bancarotta fraudolenta.

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