Premier isolato adesso si traveste da tecnico

Forse il Palazzo è troppo diffidente e basta un «nonnulla» per destare dei sospetti, ma certi discorsi sull’Europa, sull’economia, su Bruxelles, giusti o sbagliati che siano, riecheggiano il lessico di Mattarella e rimembrano molto alla lontana quelli di Carlo Cottarelli, un Cottarelli in «do minore». E poi c’è quella foto che campeggia sui giornali, di lui sdraiato su un prato mentre accarezza i suoi cani: emblema della solitudine in politica, cioè la condizione sublime di ogni «tecnico» che suo malgrado – nel rituale istituzionale il «tecnico» è sempre considerato scevro da ogni brama di potere – diventa premier: da Ciampi a Dini a Monti. E ancora, ci sono le lodi sempre meno camuffate di quelli che Berlusconi definiva «i giornaloni», che improvvisamente hanno scoperto il piglio del conducator in un personaggio che fino a ieri consideravano insignificante. E, in ultimo, visto che la storia si ripete sempre, non poteva mancare il Noto sondaggio, che assegna all’ipotetico partito del premier una percentuale del 12%. In realtà all’epoca il partito di Monti era accreditato di un consenso molto più alto, ma poi dalle urne uscì una cifra proprio poco sotto il 12%.

Appunto, un Monti «fatto in casa», un succedaneo inventato non nel sofisticato laboratorio di Giorgio Napolitano, ma nel retrobottega del Quirinale di Sergio Mattarella, tirato fuori all’«uopo» perché è quello che passa il convento. Un Monti declinato per far fronte all’offensiva di Bruxelles che, nell’era gialloverde e in pieno «governo del cambiamento», non può permettersi di vestire i panni di Cottarelli, per cui prende le sembianze di «Peppino», che, anche se non è economista, è pur sempre un avvocato, «un avvocato del popolo». E vaso di coccio tra i vasi di ferro – stretto tra Mattarella, i vicepremier e i diktat del Bruxelles – il premier, da buon «tecnico», si è messo sotto l’ombrello del Quirinale, nella speranza di ritagliarsi un ruolo da «star», o almeno da attore non protagonista. In fondo c’è da capirlo: chi lascerebbe un lavoro che rendeva una dichiarazione dei redditi da 400mila euro, per prenderne 120mila, poi tagliati a 90mila in ossequio alla liturgia grillina, per fare solo la comparsa?

Così il premier, attorniato dal partito dei «tecnici» del Quirinale nel governo (da Tria a Moavero), immemore del fatto che la sua firma è in calce sotto provvedimenti come il reddito di cittadinanza o «quota cento» che hanno fatto saltare i nostri conti, ha rivendicato il ruolo di mediatore tra i sovranisti nostrani e gli europeisti di Bruxelles; si è eretto a difensore del Bel paese dallo spread; ha cominciato a predicare prudenza ai vicepremier; ha assunto la stessa posizione razionale di Draghi sui «mini-Bot»; e, addirittura, si è fatto a fotografare ad Hanoi insieme al pd più filo-europeista e più vicino al «Monti style», il cocco del Nap, Enrico Letta. E, seguendo la scuola del Quirinale, ha continuato a tirar fuori l’ipotesi di elezioni anticipate a settembre, unico nel Palazzo insieme a pretoriani di Mattarella nel Pd, come Franceschini o Delrio.

Ma davvero le minacce di Conte potrebbero sfociare in una crisi di governo per le sue dimissioni unilaterali e, magari, portare alle urne? Al Quirinale che guarda con sospetto il ricompattamento tra Salvini e Di Maio su posizioni critiche con Bruxelles, qualcuno ci spera ancora, ma i «toni forti» del premier hanno ancora le sembianze della parodia. Inoltre i due vicepremier hanno maturato una certa diffidenza verso i tanti che nell’establishment li invogliano a imboccare la strada delle urne: proprio quell’establishment, il Nap e Mattarella insegnano, che ha sempre avuto una certa allergia verso il voto popolare. Entrambi sono convinti che «qualcosa ci cova». Ecco perché alla fine – come teorizza Salvini – «si troverà una mediazione». Del resto un modus vivendi con quest’Europa bisognerà pur trovarlo e Conte potrebbe assumersi la responsabilità di un accordo con Bruxelles, da cui, magari al momento opportuno, per esigenze elettorali, Salvini e di Maio in futuro potrebbero prendere le distanze: insomma, il premier potrebbe diventare quello che in gergo si definisce una «testa di legno».

E Conte, invece, che cosa potrebbe portare a casa con questo atteggiamento? Con Di Maio costretto, nel bene e nel male, a essere leale – in realtà bisognerebbe dire supino – a Salvini, il premier potrebbe diventare il riferimento di tutti quelli che non sopportano il leader leghista, nell’establishment e tra i pentastellati. L’uomo che, nell’ambito del governo, ne dovrebbe frenare l’irruenza e le ambizioni. E non sono pochi. Mattarella in primis. Ma anche l’anima movimentista dei 5stelle, proprio quella più attenta al Colle, delusa dall’inconsistenza dei vari Fico e Di Battista. Quelli, ad esempio, che vivono male anche l’ipotesi di un rimpasto. «Stanno ballando la Grillo e Toninelli – insinua Luigi Gaetti, sottosegretario all’Interno grillino – solo perché sono i ministeri dove girano più soldi. Magari li vogliono cambiare perché danno fastidio ai soliti noti. In fondo la Sanità è il settore dove si susseguono gli scandali. E a me un collaboratore di giustizia ha spiegato come il ministero che più interessa alla mafia è quello delle infrastrutture!».

E Salvini? Perché dovrebbe evitare lo «strappo» finale con Conte trasformato in un piccolo Monti? Probabilmente perché ha bisogno di tempo. Deve ancora ragionare sullo schieramento con cui andare alle elezioni, magari la prossima primavera. Deve far maturare i tempi, perché l’ipotesi del vecchio centro-destra non lo convince e neppure la corsa in solitaria con la Meloni. Anzi, a proposito di Fratelli d’Italia, queste sono le istruzioni che ha dato ai suoi: «Un’alleanza da soli con la Meloni? Non se ne parla. Vi dirò di più: tenetevi a notevole distanza da tutti i suoi uomini!».

IL GIORNALE

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