Aspettare Godot non aiuta

Londra è diventata un grande teatro dell’assurdo. I protagonisti sono gli uomini normali, le vittime del clima di follia generale. Uno di loro è Dominic Grieve, parlamentare del Buckinghamshire. Studi al liceo francese di South Kensington, laurea al Magdalen College di Oxford, una Legion d’onore nel 2016. Nei giorni scorsi gli iscritti conservatori del suo collegio gli hanno revocato il mandato. Addio Westminster. La sua colpa? Essere sempre stato un «remainer» e aver definito l’uscita dall’Ue «un terribile atto di autolesionismo». Si è espresso per un secondo voto, come i giovani senza bandiera che hanno riempito due settimane fa le strade di una città-mondo mai diventata la roccaforte della nostalgia.

Certo, Grieve è una mosca bianca tra i conservatori. Ma è sempre possibile sperare che anche più agguerriti «leavers» vicini a Theresa May abbiano avuto qualche dubbio quando il «cabinet secretary», Sir Mark Sedwill, ha illustrato al governo le conseguenze catastrofiche di un «no deal». Nella prima delle quattordici pagine del documento si avverte che la Gran Bretagna si troverebbe ad affrontare una recessione «più nefasta» di quella seguita alla crisi finanziaria del 2008 e che i prezzi dei generi alimentari aumenterebbero fino al 10 per cento. Forse è un’illusione pensare che anche qualche falco si sia allarmato: la politica sembra essere diventata, un po’ dovunque, l’arte di inseguire le fantasie senza fare i conti con la realtà.

Intanto però, si sono aperti due spiragli. L’avvio dei negoziati con Jeremy Corbyn (un altro sonnambulo che ha camminato con gli occhi chiusi) e la mozione approvata mercoledì notte dalla Camera dei Comuni, che impone al governo di chiedere una proroga per evitare la scadenza del 12 aprile, sono il chiaro segno che era impossibile gestire l’ultima fase di questo processo (se sarà veramente l’ultima) con la maggioranza uscita dalle elezioni del 2017. Che sia stata o no ispirata soltanto dalla disperazione, Theresa May sembra averlo finalmente capito. Più in generale, appare ovvio che in uno scenario di questa drammaticità serve una partnership tra le principali forze politiche. La Brexit ha fatto già saltare gli schemi del bipolarismo, anche se imperfetto, prodotto storicamente dal sistema maggioritario a turno unico. In mancanza di un improbabile miracolo, non rimane quindi che affidarsi alla «strana coppia», come i commentatori chiamano la premier e il leader laburista. I due sembrano avere alcune cose in comune: essere stati degli outsider nei tempi d’oro dei rispettivi partiti e avere uno scarso controllo dei loro gruppi parlamentari.

E l’Europa? Queste novità rendono ancora più necessaria una posizione conciliante, anche se pianificare un lungo rinvio o lasciare la Gran Bretagna con un piede dentro e uno fuori (come ha sempre fatto, in fondo, nel passato) può non sembrare una prospettiva entusiasmante per chi crede ancora possibile un consolidamento e un rafforzamento dell’Unione. Si tratta adesso di evitare atteggiamenti punitivi o di rivincita, perché la priorità, oggi, è conservare. Impedire quella che lo storico oxfordiano Timothy Garton Ash ha definito la probabile «graduale disintegrazione» della casa comune costruita qualche decennio fa. L’idea di un referendum nel quale scegliere tra un accordo finalmente raggiunto con Bruxelles e la permanenza nell’Ue è interessante. Bisogna smettere di aspettare Godot. Il testo di Samuel Beckett si conclude con Vladimiro che dice: «Allora andiamo?» ed Estragone che risponde: «Andiamo». Poi non si muovono.

CORRIERE.IT

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