Il Pd del mite Zinga

Con quell’aria un po’ così, da figlio del partito in camicia azzurra e cravatta, così refrattario alla cultura dell’immagine da permettersi il lusso novecentesco di sudare, proprio come una volta, il mite Zinga una svolta l’ha impressa, nel suo grande giorno. E anche piuttosto radicale nelle parole e nei simboli. Svolta segnata, innanzitutto e di questi tempi non è poco, da un grande recupero del principio di realtà, con qualche accenno di autocritica, grande tabù violato in un partito che, fino a poco tempo fa, la considerava un’attività da comunisti, preferendo suonare la grancassa al leader. E chiamando modernità ciò che negava la storia della sinistra, in un eterno presente senza memoria.

Ecco invece il figlio di un partito dove si analizzava per ore anche la vittoria degli universitari alla Sapienza – figuriamoci la più grande sconfitta della storia della sinistra – che annuncia, nel suo primo discorso, il suo “cambiamo tutto”, anche lo statuto del partito per aprirlo alla società e sottrarlo al dominio delle filiere di potere, spalancando porte e finestre. E che va al dunque, alla cruda realtà delle ragioni per cui questo cambiamento è necessario: “Anche noi, dalla cima di questa montagna di frasi fatte, di intenti roboanti, di schemi politici, abbiamo perso di vista la quotidianità della vita”. Non è poco, è una critica a ciò che è stato, accompagnata da un recupero identitario, per cui il passato – grande bersaglio della cultura della rottamazione – torna ad essere, nelle citazioni di Gramsci o Moro o nella fotografia a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza, non un luogo da abitare nostalgicamente ma un campo di costruzione di senso.

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