L’affondo di May: avanti sulla Brexit. Ma a Westminster l’intesa non piace

alfonso bianchi
londra

Neanche il tempo di festeggiare l’accordo sulla Brexit con l’Ue che Theresa May si è trovata a dover affrontare un vero e proprio terremoto politico in quella che è stata la giornata più difficile della sua carriera.

Il buongiorno ieri mattina è arrivato dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk (ha confermato il summit straordinario Ue domenica 25 novembre) che ha spento ogni entusiasmo tra chi esultava per il risultato raggiunto. «La Brexit è una situazione “lose-lose” dobbiamo lavorare per limitare i danni». E i danni, per la premier, non hanno fatto che aumentare con il passare delle ore. Alle 9 sono arrivate le dimissioni del responsabile della Brexit, Dominic Raab, l’uomo a cui era stato affidato il compito di gestire le trattative per il divorzio appena 5 mesi fa, dopo che il suo predecessore, David Davis, si era dimesso a sua volta. «Non posso sostenere in buona coscienza questo accordo», che «rappresenta una minaccia reale all’integrità del Regno Unito», ha spiegato. Dopo di lui hanno lasciato anche la segretaria di Stato per Lavoro, Esther McVey, e cinque sottosegretari.

 

A Westminster, dove è intervenuta in mattinata per circa tre ore, May ha trovato un clima infuocato. Gli interventi hanno mostrato che l’Aula, almeno per il momento, non è con lei e che la premier dovrà faticare non poco se vorrà trovare i numeri per far passare l’accordo in Parlamento a dicembre. «Il governo deve ritirare questo accordo pasticciato che non ha il sostegno dei ministri, del Parlamento o del Paese nel suo intero», ha attaccato, Jeremy Corbyn. Il leader dei laburisti ha affermato che l’Aula «non può accettare questa falsa scelta tra un cattivo accordo ed il “no deal”», ribattendo così alla linea di May secondo cui la scelta è soltanto tra il suo accordo o nessuno.

 

Il sindaco di Londra Sadiq Khan, filo Ue, invita i deputati del suo partito laburista a votare contro l’intesa. Ma i pericoli più grandi per la premier sono arrivati dal suo stesso partito, con il leader dell’ala dura dei brexiters, Jacob Rees-Mogg, che ha depositato una mozione di sfiducia nei suoi confronti che potrebbe portare a una pericolosa conta interna. May in serata ha tenuto anche una conferenza stampa dove ha provato a mostrarsi sicura di sé.

 

«Andrò fino in fondo», ha ripetuto più volte contestando ai critici del suo operato di non essere stati capaci di fornire «valide alternative». «Capisco che ci siano preoccupazioni ma è un dato di fatto incontrovertibile che non ci poteva essere alcun accordo che non prevedesse un backstop» in Irlanda del Nord, ha rivendicato. La premier ha anche chiuso all’ipotesi di un secondo referendum in quanto, ha detto, «i britannici si sono già espressi con un voto e hanno detto di voler lasciare l’Unione europea. Ed è quello che faremo». Ma i numeri non sono dalla sua parte: A Westminster i conservatori sono 318 su 650, sette in meno della maggioranza assoluta, e di certo non sono compatti. Così come di certo contro la premier si schiereranno gli alleati, o meglio ex tali, Unionisti nord irlandesi, che sono i più critici verso l’accordo vista la permanenza dell’Irlanda del Nord nell’Unione doganale.

 

Alla premier va riconosciuto di aver affrontato una giornata terribile in maniera coraggiosa, ma ostentare fiducia non le basterà a trovare in numeri nel momento decisivo.

LA STAMPA

 

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