Tasse e pressione fiscale: cosa è cambiato in 18 anni di promesse elettorali

di Milena Gabanelli ed Enrico Marro

Via le aliquote Irpef; niente più Irap; basta con le tasse universitarie; taglio del cuneo fiscale; abolizione del canone Rai; stop al bollo auto; nessun prelievo su successioni, donazioni e nemmeno su case di lusso, ville e castelli. E chi più ne ha più ne metta. Se c’è un campo dove i partiti non conoscono limiti nelle promesse elettorali è quello del fisco. Ma quanto c’è di credibile in esse e quanto di propaganda? Un punto di partenza può essere il confronto con le precedenti consultazioni politiche. Almeno dal 2001, ogni campagna elettorale è stata dominata dalla promessa di tagliare le tasse. Ma com’è andata effettivamente? Proveremo a rispondere a questa domanda più avanti. Prima cerchiamo di inquadrare l’argomento.

Meno tasse o più servizi?

In materia ci sono due scuole di pensiero. La prima dice che tutti vogliamo pagare meno tasse. La seconda che non chiederemmo pagare meno se in cambio ottenessimo servizi adeguati. «Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute», disse nel 2007 l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, prima di essere coperto di improperi sulla rete e non solo. Del resto, questa seconda scuola di pensiero implica una pubblica amministrazione efficiente, che ci siano meno corruzione, meno sprechi, più senso civico, eccetera, eccetera. Forse per questo viene più facile aderire alla prima scuola. Solo che se si pagano meno tasse possono succedere due cose:

1) La prima è l’aumento del deficit e del debito pubblico, se insieme alle tasse non si taglia anche la spesa dello Stato. Ma c’è chi sostiene che l’aumento del deficit sarebbe solo temporaneo, perché poi con la crescita dell’economia spinta dal calo delle tasse le entrate sarebbe maggiori di prima. Perfino Berlusconi, che propone la flat tax, cioè un’aliquota unica Irpef del 23% al posto delle 5 attuali (dal 23 al 43% dell’imponibile) ammette: «Il primo anno ci saranno entrate minori per circa 30 miliardi». Ma subito aggiunge: «Andremo a prendere questi soldi, almeno 40 miliardi, dalla non elusione e dalla mancata evasione». Alla fine, appunto, lo Stato ci guadagnerebbe pure. Ma l’Italia, che ha il secondo debito pubblico in Europa, pari a circa il 132% del prodotto interno lordo, può permettersi di scommettere e di sfidare su questo terreno i mercati sui quali deve collocare ogni anno circa 400 miliardi di titoli pubblici?

2)La seconda cosa che può capitare abbattendo le tasse è che insieme bisogna abbattere le spese, per evitare appunto che il deficit esploda. Ma questo implica scelte difficili. Cosa si taglia? I dipendenti pubblici, le pensioni, la sanità, la scuola, la difesa? I partiti si guardano bene dallo scendere nei dettagli. Più genericamente prometto la lotta agli sprechi…

E poi c’è l’evasione

Ma una discussione sul fisco non sarebbe completa senza affrontare il tema dell’evasione. Per carità, c’è in tutti i Paesi, ma in Italia è più alta. L’evasione fiscale e contributiva sottrae, secondo le stime del governo, circa 108 miliardi ogni anno alle casse dello Stato (pagina 12, tabella 1.C:1). Se tutti pagassero il dovuto, ciascuno pagherebbe meno. Lo abbiamo visto, per esempio, col canone Rai. Quando il governo Renzi ha spostato il tributo, che prima gli utenti dovevano adempiere spontaneamente, nella bolletta elettrica, con una sorta di prelievo alla fonte, ci sono stati 5,6 milioni di abbonati in più per un maggior gettito di oltre 500 milioni, nonostante l’importo del canone fosse stato ridotto da 113,5 a 100 euro. In generale, minore è l’evasione minori sono le probabilità che chi fa il proprio dovere paghi anche al posto di chi fa il furbo. I tecnici spiegano così che un conto è la pressione fiscale «ufficiale», che è pari a circa il 43% del Pil, un altro la pressione fiscale «effettiva», cioè calcolata al netto dell’economia sommersa che le tasse non le paga per definizione. Si arriva per quest’ultima a quasi il 50%. Per forza, chi paga non ne può più e vorrebbe pagare meno.

Il fenomeno è antico. Lo aveva denunciato l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, già nel 2007: il livello della pressione fiscale italiana «è più alto della media europea». «A causa del peso dell’evasione — aveva spiegato nelle Considerazioni finali — la differenza tra l’Italia e il resto d’ Europa è maggiore se si guarda al prelievo sui contribuenti fiscalmente onesti». Insomma, paghiamo troppe tasse anche perché da noi si evade di più. Ma c’è chi non è d’accordo e sostiene che non bisogna scambiare le cause con gli effetti e che quindi è tutta colpa dello Stato che in Italia chiede troppo costringendo i contribuenti ad evadere. Ma è proprio così? Secondo l’ultimo rapporto Ocse, l’Italia è al sesto posto nella classifica della pressione fiscale in rapporto al Pil, col 42,9%. Al primo posto c’è la Danimarca col 45,94%, davanti a Francia (45,27%), Belgio (44,18%) e Finlandia e Svezia, entrambe al 44,1%. Eppure in questi Paesi l’evasione fiscale è più bassa che da noi.

Berlusconi e il contratto con gli italiani

È almeno dal 2001 che il taglio delle tasse domina tutte le campagne elettorali. La svolta la imprime Silvio Berlusconi con il famoso «Contratto con gli italiani», firmato l’8 maggio di quell’anno, cinque giorni prima delle elezioni, durante la trasmissione tv Porta a Porta, ospite di Bruno Vespa. Il primo punto del contratto era l’«abbattimento della pressione fiscale: con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui; con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui; con l’abolizione della tassa di successione e della tassa sulle donazioni». Le due aliquote non furono introdotte, la riforma ne previde infatti quattro (dal 23 al 43%) e le tasse sulle successioni e sulle donazioni vennero cancellate solo per i redditi oltre i 350 milioni di lire. La pressione fiscale era, secondo i dati consultabili sul sito Istat, del 40,1% del Pil nel 2001 (Berlusconi governa dall’11 giugno) e del 40,2% nel 2006 (il Cavaliere lascia il 17 maggio). In mezzo l’anno migliore è stato il 2005, con il 39,1%.

Prodi e la pressione fiscale che sale

Il 9-10 aprile 2006 si vota e a Palazzo Chigi va Romano Prodi alla guida di un governo di centrosinistra (dal 17 maggio 2006 al 6 maggio 2008). In due anni la pressione fiscale sale di un punto, arrivando nel 2008 al 41,3% del Pil. Eppure il governo Prodi aveva adempiuto alla principale promessa fatta nella campagna elettorale del 2006: il taglio del cuneo fiscale. La riduzione fu di 5 punti, di cui tre a favore delle imprese e due dei lavoratori con una mini riforma dell’Irpef. L’intervento costò 7,5 miliardi, se ne accorsero più le imprese (con evidente soddisfazione dell’allora presidente della Confindustria, Luca di Montezemolo) che le famiglie, anche perché le entrate locali (dalle addizionali Irpef alle tasse sui rifiuti) videro un picco di aumento del 9,3% nel 2007.

Il governo dell’Ulivo, inoltre, abbassò dal 33 al 27,5% l’Ires e dal 4,25 al 3,9% l’aliquota Irap, entrambe imposte a carico delle aziende e introdusse un prelievo agevolato forfettario del 20% per le partite Iva con un giro d’affari sotto i 30 mila euro l’anno. Un contributo all’aumento della pressione fiscale sotto l’esecutivo Prodi venne dall’azione di contrasto dell’evasione fiscale promossa dal vice ministro dell’Economia Vincenzo Visco e, soprattutto, dal primo anno di recessione dopo la crisi partita dagli Stati Uniti. Il Pil scese dell’1,1%, abbassando il denominatore del rapporto della pressione fiscale.

Torna Berlusconi

Alle elezioni politiche anticipate del 2008 vince ancora il centrodestra e Berlusconi governa di nuovo dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011. Questa volta il Cavaliere in campagna elettorale promette: il quoziente familiare sul modello francese per far pagare meno tasse alle famiglie numerose e monoreddito; l’aliquota massima Irpef al 33%; il federalismo fiscale «che non comporterà un aumento delle imposte, ma una loro riduzione»; stop ai condoni; abolizione dell’Ici sulla casa. Sintetizza il tutto, dicendo che vuole far «scendere la pressione fiscale sotto il 40%». Invece, nei due anni e mezzo del suo quarto governo il livello delle tasse rispetto al prodotto interno lordo rimane assolutamente stabile, chiudendo il 2011 al 41,6%, ma va dato atto a Berlusconi che ciò avviene nonostante il Pil tocchi il massimo della recessione nel 2009 con un –5,5%.

Rispetto alle misure promesse, viene varato solo il federalismo fiscale, ma le imposte locali continuano a salire (+ 3,7% nel 2010 e + 3,2% nel 2011) e la soppressione dell’Ici sulla prima casa. Quanto ai condoni, Berlusconi fa il contrario di quanto promesso, varando un nuovo scudo fiscale, dopo quelli che aveva già lanciato nel 2001 e nel 2003. Saranno 180 mila gli evasori che utilizzeranno nel 2009-10 la sanatoria per regolarizzare 104,5 miliardi di euro nascosti all’estero al modico «prezzo» di 5,6 miliardi che entreranno nelle casse del Fisco. Comunque di più dello scudo 2001-3 che aveva portato alla luce 77 miliardi per un gettito di un paio di miliardi. Ma questa volta il «successo» dell’operazione è agevolato dal fatto che all’evasore è garantito non solo l’anonimato ma anche la non punibilità di reati come la dichiarazione omessa o fraudolenta e il falso in bilancio.

Poi, nell’estate del 2011, tutto precipita. Con lo spread ai massimi storici, il governo del Cavaliere, è costretto a varare due manovre estive «lacrime e sangue»: legge 111 e legge 148 per un valore cumulato fino al 2014 di circa 145 miliardi, dei quali quasi un centinaio ottenuti con maggiori entrate. Le stangate pongono le basi per un’azione di inasprimento della pressione fiscale. Tra l’altro arriva l’aumento dell’Iva al 21%, delle accise, dell’imposta di bollo sui depositi e le attività finanziarie e debuttano le famigerate «clausole di salvaguardia» (altri aumenti dell’Iva programmati per gli anni successivi).

Monti per salvare il salvabile

La pressione fiscale raggiunge il massimo storico nel 2013 col 43,6% del Pil. La responsabilità non è tutta del governo presieduto da Mario Monti (dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013), che eredita le maxi manovre del governo Berlusconi e vi aggiunge le sue. In particolare il decreto Salva Italia (63 miliardi nel triennio 2012-14, di cui 51 dal lato delle entrate). Ma almeno l’economista della Bocconi non aveva fatto promesse in senso contrario (del resto non era passato per una campagna elettorale), anzi fu chiaro a tutti che era stato chiamato al governo in un momento di emergenza per salvare il Paese dal rischio bancarotta. Purtroppo ciò avvenne, come da brutta abitudine, prevalentemente dal lato delle entrate. Monti, tra l’altro, introdusse l’Imu al posto dell’Ici, che comportò il pagamento dell’imposta anche sulla prima casa (prima esente) e prelievo maggiore sulle altre case e sui terreni. (Per il dettaglio delle manovre adottate dal 2008 al 2013 ,si vedano le tavole 5.4a e 5.4b di pagina 205-206 del rapporto Istat).

Bersani promette, ma governa Letta

Dopo le ultime elezioni, quelle del febbraio 2013, la legislatura che si è appena conclusa vedrà governare il centrosinistra, prima con Enrico Letta, poi con Matteo Renzi, infine con Paolo Gentiloni. Eppure la campagna elettorale di questo schieramento l’aveva guidata l’allora segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Che aveva promesso: di abbassare dal 23 al 20% la prima aliquota Irpef; di tagliare il cuneo fiscale per chi assume e, tanto per cambiare, di ridurre la pressione fiscale e «mai più condoni». Solo che a governare non è stato lui. Ha cominciato Enrico Letta ma ha governato solo dieci mesi (dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014); sicuramente il premier più vicino a Bersani, visto che era vicesegretario del Pd e quindi aveva condiviso il programma elettorale del partito. Letta vara un complicato sistema di taglio del cuneo fiscale attraverso le detrazioni sui redditi da lavoro fino a 32 mila euro, ma se ne accorgono in pochi, visto che lo sconto arriva al massimo al 18,5 euro al mese (225 euro l’anno). Il governo, sostenuto in una prima fase anche da Berlusconi (fino a novembre), cancella anche l’Imu e la sostituisce con la Tasi, che con modalità diverse, si paga anche sulla prima casa.

Renzi e poi Gentiloni, la pressione fiscali

Dal 22 febbraio 2014 tocca a Matteo Renzi, che durante la campagna elettorale era solo il sindaco di Firenze. E che quando arriva a Palazzo Chigi porta le sue idee. Governa fino al 12 dicembre 2016. In quasi due anni e dieci mesi di attività, mette 80 euro netti in busta paga a chi guadagna fino a 26 mila euro lordi (un aumento di spesa, secondo le regole di contabilità, una riduzione delle tasse secondo il premier) per un costo di 10 miliardi l’anno, elimina il costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap (6,5 miliardi), riduce l’Ires dal 27,5 al 24% (3 miliardi), cancella la Tasi sulla prima casa, vara il superammortamento sugli investimenti delle imprese. La pressione fiscale, complice anche la ripresa del Pil, scende dal 43,6% del Pil registrato nel 2013 al 42,6% nel 2017, secondo le ultime stime (al 42% se si considerano anche gli 80 euro come un alleggerimento delle tasse).

Al risultato ha partecipato il governo Gentiloni, in carica dal 12 dicembre 2016. Anche questa volta, però, nessuna svolta sulla lotta all’evasione e nuove sanatorie. Arriva la «rottamazione» delle cartelle Equitalia, che secondo la relazione tecnica al decreto fiscale 148 del 2017, porterà 6,2 miliardi di gettito nel 2017 (vedi pagina 44-45). La sanatoria è andata così bene (1,1 miliardi in più del previsto il primo anno, compresi anche 400 milioni dalla rottamazione delle liti fiscali pendenti) che il governo Gentiloni vara una rottamazione bis per rendere sanabili le cartelle fino al 30 settembre 2017: gettito atteso nel 2018-18 un miliardo 345 milioni.

Renzi approva anche la voluntary disclosure (legge 186 del 2014), ancora a favore di chi ha nascosto i capitali all’estero. Sono state 129.620 domande di adesione, per un’emersione totale di quasi 65 miliardi di euro e un gettito di circa 4,3 miliardi, contro i 3,8 previsti (slide 21). Pure questo un successo (tanto che pure in questo caso il governo decide il bis), anche se va detto che la voluntary non è come lo scudo, che garantiva l’anonimato. Ora l’Agenzia delle entrate sa chi aveva nascosto i capitali all’estero, quanto e dove e quindi c’è un’emersione di base imponibile anche per i prossimi anni.

Le domanda

Nessun governo ha fatto una profonda riforma dell’Irpef, che continua a tartassare i redditi medio alti, specialmente dipendenti e pensionati con la ritenuta alla fonte. Basti pensare che solo il 12% dei contribuenti Irpef dichiara più di 35 mila euro lordi all’anno (cioè almeno 2.100 euro netti al mese) ma versa il 54% dell’imposta, mentre il 45% dei contribuenti dichiara meno di 15 mila euro lordi (cioè meno di 1.100 euro netti) e paga solo il 5% dell’imposta. Ma c’è soprattutto la fascia di contribuenti con un reddito superiore a 100 mila euro lordi, circa 52 mila netti, che rappresenta appena l’1% del totale (440 mila persone), ma versa all’erario il 17,22% del totale dell’Irpef.

Qualcosa non funziona, è chiaro. Chi non vuole o non può evadere paga troppe tasse, su questo non c’è dubbio, e spesso si tratta di contribuenti che ricchi non sono, anche se figurano come tali per il fisco, mentre i ricchi veri spesso trovano tutti i mezzi per evadere ed eludere. Finora, l’unico modo in cui tutti i governi, di qualsiasi colore, sono intervenuti è il condono, mascherato con nomi diversi, ma di questo si tratta: andare da chi ha fatto i propri comodi a chiedergli di restituire, con tanto di ringraziamenti (niente sanzioni e interessi, per carità) una parte del bottino. Forse è una strada realistica: meglio recuperare qualcosa che nulla. Ma non può essere l’unica. Di questo però non si parla seriamente mentre tutti partiti preferiscono fare a gara a chi promette meno tasse. Ma a spese di chi?

CORRIERE.IT

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