Archive for Agosto, 2022

Il sabato fascista e i giovani deviati

lunedì, Agosto 29th, 2022

Paolo Crepet

Assisto sbigottito alle ultime invenzioni di partiti in convulsione tra ricerca di consenso e turbamento per il futuro. Eppure ogni volta che lambiscono la “questione giovanile” emergono proposte sorprendenti che svelano un intreccio di insipienza e fastidio.

Si comincia con il pretesto energetico proponendo di chiudere le scuole un giorno alla settimana, accorciare l’ora di lezione, accrescere il ricorso alla Dad (che ha massacrato gli adolescenti: basterebbe leggere il recente saggio di Anya Kamenetz, “L’anno rubato”). C’è chi pensa di reintrodurre il servizio militare per “tonificare” una generazione invece di riflettere sull’utilità di un periodo “servizio civile” per ragazzi e ragazze che li aiuterebbe a capire la fecondità delle relazioni con persone in difficoltà, ad adoperarsi per curare l’ambiente, a comprendere non solo i diritti di una comunità ma anche i suoi doveri.

Né manca nell’arrembaggio politico il tantra della monetizzazione della gioventù. Tra “una tantum” al diciottesimo e salario di cittadinanza, emerge un’indicibile opera di “downgrade” generazionale. Asili intesi come parcheggi per genitori lavoratori e privi di nonni (meglio se a pagamento), non come necessaria pedagogia primaria -Montessori docet-, obbligo scolastico fermo a 16 anni, fine medie superiori un anno oltre i coetanei europei. Viene citata con preoccupante frequenza la necessità di cancellare i test universitari e di facilitarne i corsi rendendoli online. Rimane da capire chi saprà operare in un ospedale o chi fare i calcoli per costruire un ponte. Tuttavia il dato più inquietante riguarda un’idea desueta di educazione che si traduce grossolanamente in disciplina, ordine.

A qualcuno ha seriamente proposto che l’attività fisica non debba essere un gioco, un modo per crescere, ma lo strumento per uniformare comportamenti e modi di essere. Forse a molti non dispiacerebbe una riedizione del “sabato fascista”. Come se, sotto divise sportive, tra salti e giravolte, il disagio adolescenziale potesse magicamente scomparire e con esso ogni forma linguaggio divergente. C’è un modo speciale per detestare la giovinezza: non voler comprendere che è fatta di nei, di anomalie, di imprevedibilità. Così si arriva a pensare che lo sport debba essere una terapia di massa contro ogni forma di fragilità e di deviazione da una normalità approvata per legge, una camicia di forza per le anime più inquiete e inquietanti: ossessione per il controllo, tipologia di ogni dittatura.

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La preghiera di Francesco sulla tomba di Celestino (e altre voci di dimissioni)

lunedì, Agosto 29th, 2022

Fabio Marchese Ragona

La preghiera di Francesco sulla tomba di Celestino (e altre voci di dimissioni)

Un gesto che rimarrà nella storia, mai nessun Papa aveva aperto la porta santa della Basilica di Santa Maria di Collemaggio dove riposa Celestino V, il Pontefice che nel 1294 rinunciò al pontificato. Pietro da Morrone, questo il suo nome, prima di compiere il passo indietro, decise di concedere l’indulgenza plenaria perpetua a chi avesse attraversato quella porta, in ricordo della sua incoronazione al soglio pontificio proprio all’interno della basilica aquilana. Un rito che continua da 728 anni, sempre negli ultimi giorni di agosto, e che ieri è stato compiuto anche da Papa Francesco.

Seduto in carrozzina, Bergoglio, davanti a quel portone sbarrato, ha seguito le litanie dei santi e, dopo aver compiuto l’antico rituale, è entrato in basilica per pregare davanti alle spoglie di Celestino V, sotto gli occhi di milioni di fedeli, alcuni convinti (e qualcuno a dire il vero anche malignamente speranzoso) che quel momento potesse essere un preludio alle dimissioni. Un gesto che per molti ha richiamato alla memoria la preghiera di Benedetto XVI davanti alle spoglie di Pietro da Morrone, compiuta nell’aprile del 2009, qualche settimana dopo il terremoto che distrusse la città. Ratzinger, che aveva raggiunto il capoluogo abruzzese per manifestare vicinanza alla popolazione ferita, in quell’occasione depose sulla teca un suo vecchio pallio, ancora oggi conservato all’interno dell’urna. Un gesto visto da molti come un segno profetico delle dimissioni, annunciate poi nel febbraio 2013 ma su cui Benedetto aveva già iniziato a riflettere nell’aprile dell’anno prima. Anche per Francesco, soprattutto i giornali d’oltreoceano, avevano ipotizzato quindi che la visita a L’Aquila potesse anticipare qualche decisione clamorosa: le dimissioni, insomma, sulla scia di Benedetto, incontrato al monastero Mater Ecclesiae insieme ai venti nuovi cardinali, alla vigilia della trasferta aquilana. Bergoglio ha bollato questa ipotesi come semplice «coincidenza», assicurando, in più occasioni durante alcune interviste, che l’idea di lasciare il pontificato non gli è mai balenata per la testa. Potrebbe accadere in futuro, ha spiegato, «se le mie condizioni di salute rendessero impossibile andare avanti». Non è un caso che nel corso dell’omelia a L’Aquila, Francesco abbia ribaltato completamente l’immagine che si è sempre avuta di Pietro da Morrone: «Erroneamente – ha detto il Papa – ricordiamo la figura di Celestino V come colui che fece il gran rifiuto, secondo l’espressione di Dante nella Divina Commedia; ma Celestino V non è stato l’uomo del no, è stato l’uomo del sì». Infatti, ha continuato Francesco, «non esiste altro modo di realizzare la volontà di Dio che assumendo la forza degli umili, non ce n’è un altro. Proprio perché sono tali, gli umili appaiono agli occhi degli uomini deboli e perdenti, ma in realtà sono i veri vincitori, perché sono gli unici che confidano completamente nel Signore e conoscono la sua volontà».

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Vetrine buie e termostato giù. Ecco il “lockdown” elettrico

lunedì, Agosto 29th, 2022

Marcello Astorri

Vetrine dei negozi al buio, monumenti senza illuminazione e luci più fioche nelle strade. In casa temperature più basse, con aumento di maglioni pesanti. Perfino l’acqua calda rischia di non essere disponibile a tutte le ore del giorno e senz’altro le docce dovranno farsi più brevi. L’Italia e l’Europa si stanno preparando ad affrontare l’inverno più difficile, con il rischio di trovarsi a corto di gas.

La missione è risparmiare ogni metro cubo possibile: solo così si ridurranno gli effetti nefasti sull’economia con la speranza di non dover ricorrere a stop produttivi per le industrie più energivore.

Le stesse aziende pensano a piani per consumare meno. Nel frattempo, il riempimento degli stoccaggi prosegue (in Italia è oltre l’80%). Ma potrebbe non bastare, con le manovre di Mosca sul gasdotto Nord Stream 1 (dal 31 al 2 settembre è previsto un nuovo stop) che la scorsa settimana hanno portato il prezzo del gas oltre i 339 euro al megawattora (oltre 12 volte rispetto a un anno fa). Assoutenti stima, per luce e gas, una spesa di 5.266 euro a famiglia nel 2023 (+300% sul 2020). Nel 2022, la spesa sarà di 2.558 euro.

In Italia, già ora gli aderenti a Confcommercio espongono in vetrina le loro bollette esorbitanti. E ci si ingegna, come chi, a Roma, propone aperitivi a lume di candela.

Più si riuscirà a limitare l’impiego di gas e più si riuscirà a contenere anche l’ascesa dei prezzi. A Bruxelles è stata raggiunta l’intesa per limitare fino al 15% i consumi (Per l’Italia sarà il 7%). A metà settembre, si incontreranno i ministri dell’Energia, convocati dalla presidenza di turno dell’Unione. Il governo però è già vigile sul dossier.

Di recente, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha anticipato alcune le linee guida: riduzione di 1 grado della temperatura nelle abitazioni private, negli uffici pubblici e taglio di 1 ora nella durata di esercizio degli impianti. Ovvero massimo 19 gradi in inverno e non meno di 27 in estate.

La Provincia di Verona ha proposto una settimana corta per le scuole, con il sabato in Dad (o aggiungere un’ora in più agli altri giorni, come suggerito dall’Associazione Nazionale Presidi). Ipotesi che ha suscitato diverse polemiche: «I nostri ragazzi hanno già sofferto troppo», ha detto il leader della Lega Matteo Salvini, «lavoriamo per azzerare gli aumenti delle bollette, non per sacrificare scuola e studenti».

Il governo starebbe invece pensando a posticipare di una settimana l’avvio dei riscaldamenti e di anticipare di una settimana il loro spegnimento.

In Germania, dal 1 settembre temperatura massima di 19 gradi per il riscaldamento negli edifici pubblici. Mentre corridoi, foyer ed aree di transito resteranno direttamente senza riscaldamento. Il calore verrà limitato fino a 12 gradi dove i dipendenti svolgono un lavoro fisico intenso. E c’è chi, come il senatore ambientalista Jens Kerstan, pensa che in caso di carenza di gas l’acqua calda potrebbe essere a disposizione solo in alcune ore del giorno. L’illuminazione notturna degli edifici sarà vietata, con le insegne luminose che verranno spente tra le 22 e le 6. Una cosa che già accade ad Augsburg, in Baviera, dove da fine luglio le facciate degli edifici storici di notte sono spente e l’illuminazione stradale è più debole.

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Questione di stile

lunedì, Agosto 29th, 2022

Augusto Minzolini

Forse davvero il Paese, o meglio la sua classe dirigente, ha perso il senso delle cose. Che un ministro degli Esteri (Luigi Di Maio), per di più di un governo di unità nazionale sia pure dimissionario, arrivi ad accusare un leader della maggioranza (Matteo Salvini), che gli ha consentito per più di un anno di stare alla Farnesina e di decidere le sanzioni alla Russia, di essere venduto a Putin, cioè al nemico, è un’enormità.

Nella foga della campagna elettorale, si è persa la percezione del significato delle parole e si sono smarriti il senso della misura e la consapevolezza dei ruoli. Se le parole avessero un peso, dovrebbe scattare per il leader della Lega l’accusa di alto tradimento, ma le parole del capo della nostra diplomazia volano, perché chi le pronuncia non ha contezza di quelle che dovrebbero essere le conseguenze di ciò che dice. Più che altro è l’ennesimo episodio che dimostra come il decadimento delle istituzioni abbia raggiunto il suo apice con l’avvento del grillismo, in tutte le sue versioni, nella stanza dei bottoni.

Eh sì, perché la condotta del ministro degli Esteri come quella del premier, del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa di un governo dalla natura istituzionale come l’attuale, nel periodo che precede le urne dovrebbe richiamarsi all’imparzialità. Una volta per garantire la neutralità prima del voto tra i partiti che avevano fatto parte della stessa maggioranza addirittura si mettevano in piedi dei governi elettorali, spesso presieduti dal presidente del Senato, che facevano dell’equidistanza la propria virtù. In quest’occasione nessuno ha pensato che ce ne fosse bisogno, non fosse altro perché un governo con una maggioranza di unità nazionale ha di per sé le stimmate dell’esecutivo istituzionale e dovrebbe garantire almeno nei suoi ministri maggiori un comportamento equanime.

E invece niente. Un altro limite è stato superato. Di istituzionale a quanto pare Di Maio ha solo la cravatta e il colletto inamidato della camicia rigorosamente bianca. Il suo atteggiamento stride con la posizione assunta da Mario Draghi, che ligio al profilo equidistante che caratterizza il momento, ha tenuto a dire appena qualche giorno fa che l’Italia ce la farà qualsiasi sarà il colore del prossimo governo. Ora, non si può pretendere da Di Maio lo stile del premier dimissionario, ma si sperava che in questi quattro anni e mezzo trascorsi in diversi ministeri avesse imparato qualcosa delle regole che dovrebbero ispirare chi occupa ruoli di primo piano nella macchina dello Stato e un minimo, dico un minimo, di galateo politico. Speranza vana.

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In balìa di leader incapaci di tutto

lunedì, Agosto 29th, 2022

Alessandro de Angelis

Solo in Italia gli stessi che hanno tirato giù il governo poche settimane fa (e la crisi energetica era già drammatica) adesso si affannano a chiedere un intervento urgente – addirittura un “armistizio” dice Salvini – che, altro paradosso, il premier sarà costretto a varare come “emendamento” nel decreto aiuti non potendo fare un nuovo decreto a Camere sciolte. E solo in Italia mentre si agita il “pericolo per la democrazia” lo si riduce a burletta social nell’alternativa tra “pancetta e guanciale”. E, in fondo, ce ne eravamo già accorti sotto il tendone di Cl a Rimini perché Mussolini e Matteotti non si prendevano assieme il caffè come Meloni e Letta, alias “Sandra” e “Raimondo”.

Il fascismo non c’è, né ci sarà la sera del 25 settembre né nelle settimane a venire, chiunque vinca. Ma la democrazia italiana non sta tanto bene, in questa campagna elettorale che assomiglia a una grande ricreazione social: sotto le battute, il nulla. Il vero rischio è questo, segnalato dall’allarme astensionismo: si sta rendendo il voto inutile perché è palese che nessuno sappia cosa fare, in termini di soluzioni e non di esercizio di propaganda.

Vista da vicino, la cronaca del centrosinistra è quella di una coalizione già esplosa prima del voto, perché – né Cln né compiuta alleanza di governo – non ha mai creduto alla contendibilità del risultato, calibrando la strategia sull’obiettivo del “second best”, il migliore secondo, tanto per salvare le nomenklature nelle liste. La cronaca del centrodestra è quella di una coalizione destinata ad affrontare le sue enormi contraddizioni dopo il voto, dalle ombre russe mai diradate alla compatibilità di un programma economico da paese dei balocchi a chi sarà l’inquilino di palazzo Chigi.

Anche Giorgia Meloni, la cui forza è nella crisi altrui e in un’aura di novità nonostante imbarchi vecchi arnesi del berlusconismo, mostra tutte le fragilità da ansia di prestazione: più parla, più si dimostra “unfit to lead”. Perché le è estraneo il merito delle questioni e non solo secondo quale ratio costituzionale Mattarella dovrà affidare l’incarico. Ed è questo, guardato con brechtiano straniamento, il tratto che accomuna tutti: la grande divagazione rispetto all’agenda concreta del paese per cui è meglio battibeccare sulle devianze o se l’obesità sia una devianza rispetto alla guerra e alla questione di Taiwan, o al Covid, o alla Libia sull’orlo della guerra civile o a Lampedusa che esplode.

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Matteo Renzi: “Letta incoerente, sta con gli anti Draghi. Non credo alla Meloni finta moderata”

lunedì, Agosto 29th, 2022

Alessandro Barbera

Senatore Matteo Renzi, il prezzo del gas è arrivato a 340 euro a megawatt ora. Mario Draghi si trova costretto a intervenire per la terza volta in pochi mesi, nonostante sia dimissionario. Pensa debba essere lui a farlo? E se necessario dovrebbe finanziarlo in deficit?
«Si, deve essere Draghi. Anche perché è il migliore che abbiamo, sa dove mettere le mani, e come».

Ieri Enrico Letta si è chiesto con quale credibilità i partiti che hanno mandato a casa Draghi ora chiedono a lui di intervenire. È d’accordo?

«Il principio è sacrosanto. Ma mi domando con quale credibilità Letta faccia agli altri le prediche dopo aver imbarcato in coalizione chi ha sempre combattuto Draghi. Fratoianni è alleato di Letta, eppure in Parlamento ha sempre contestato Draghi. Medico cura te stesso, verrebbe da dire a Letta. Tutti gli schieramenti hanno imbarcato chi ha fatto cadere Draghi. Gli unici ad averlo sempre difeso siamo noi del Terzo polo».

Lei pensa sia possibile introdurre un tetto nazionale al prezzo del gas? O l’unica strada è quella europea? Il 20 ottobre sarà ancora Draghi a doverne discutere al tavolo dei Ventisette. Ma con quale legittimazione? Ha un consiglio da dargli?

«Non mi permetto di dare consigli a Draghi. La nostra posizione è in linea con la strategia del ministro Cingolani e coerente con quanto abbiamo realizzato quando noi facevamo lo Sblocca Italia e tutti gli altri, da Meloni a Salvini, da Berlusconi a Grillo votavano contro organizzando referendum No Trivelle. Ovvero tetto europeo, maggior ruolo del gestore unico, rigassificatore subito a Piombino».

È un fatto che la caduta del governo Draghi sia stata un regalo alla strategia di lorogamento di Putin verso l’Europa. Crede che Berlusconi e Salvini l’abbiano fatto consapevolmente?

«La caduta di Draghi è stata causata soprattutto da Conte, l’uomo che portò i soldati russi durante la pandemia sul nostro territorio, qualche sospetto viene. Ma io credo alla buona fede dei miei avversari: e sinceramente non lo giudico così raffinato da ordire un complotto internazionale. Tutti e tre, Salvini, Berlusconi e Conte avevano l’esigenza di votare presto per un loro meschino bisogno elettorale. Hanno pensato a sé e non si sono preoccupati del Paese, tutto qui. Tendo a credere sia stato un atto di irresponsabile egoismo e non un complotto internazionale. Dopo di che ho visto che Meloni finalmente propone la commissione di inchiesta sul Covid che io chiedo da due anni. Bene: andiamo a vedere quello che Conte e i suoi amici hanno combinato in quei mesi, dai russi ai ventilatori cinesi malfunzionanti garantiti da D’Alema. Ne vedremo delle belle».

Lei crede alla promessa moderata di Giorgia Meloni di essere una garanzia della continuità europea ed atlantica dell’Italia?

«Non credo alla Meloni. La ricordo difendere a Putin e attaccare il governo in una trasmissione qualche anno fa. La ricordo amica di Orban e della peggiore destra europea. La considero inadeguata e mi colpisce che nessuno dica la verità su di lei: come fai a parlare oggi di trivelle quando sei anni fa dicevi che le trivelle non servivano ed erano funzionali solo alle esigenze delle “grandi lobby di Renzi”? Detto questo ho apprezzato la posizione sulla Nato e se sarà premier non avrà i nostri voti ma avrà il nostro rispetto istituzionale. Farò di tutto per farla perdere così da avere di nuovo Draghi. Ma se vincerà saremo un’opposizione civile. Inflessibile ma civile».

Fratelli d’Italia promette di rispettare le scadenze del piano nazionale delle riforme, ma che occorrono modifiche. Paolo Gentiloni li ha avvertiti di non scherzare col fuoco, perché quelle nei prossimi mesi saranno fra le poche risorse a disposizione dell’Italia. È d’accordo?

«D’accordo con Gentiloni. Fratelli d’Italia capirà presto che i veri patrioti sono quelli che in Europa costruiscono e non distruggono. E che pensano che la globalizzazione faccia bene all’Italia: la globalizzazione, non il sovranismo».

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La campagna del Sud, Meloni e Salvini si inseguono in Sicilia

lunedì, Agosto 29th, 2022

FRANCESCO OLIVO

DALL’INVIATO A CEGLIE MESSAPICA. Nel centro storico di Ceglie Messapica c’è grande fermento: Giorgia Meloni è in arrivo, i blindati della polizia si schierano rischiando spesso di rimanere incastrati tra i vicoli stretti intorno a piazza del Plebiscito. È venerdì, al festival di Affaritaliani.it si temono contestazioni, ma le proteste non ci saranno, anzi, la leader di Fratelli d’Italia viene accolta con grande trasporto.

Due signore, sedute al tavolo di un bar della piazza commentano: «Gli anni scorsi in paese ci si emozionava per l’arrivo di Conte, oggi tutti aspettano la Meloni». Le reazioni degli abitanti della cittadina in provincia di Brindisi, governata da un sindaco di Fdi, non è ovviamente niente più che un piccolo segnale, forse però non insignificante. Al Sud si gioca una partita importante, e in palio c’è anche il consenso enorme che il M5s ha perso per strada. Meloni e Salvini lo sanno e stanno, ognuno a modo suo, battendo il territorio. Oggi la leader di Fdi e quello della Lega saranno entrambi in Sicilia, dove la posta in palio è duplice: oltre alle politiche si vota anche per le Regionali, non proprio un dettaglio da quelle parti. Meloni, che ha un’agenda piuttosto scarna, sarà prima a Messina e poi a Catania, insieme al governatore uscente Nello Musumeci, non ricandidato dopo la spaccatura nella coalizione. Domani appuntamento a Cosenza. Salvini, al solito, mette in fila un numero impressionante di appuntamenti. Sabato è stato in Puglia, ieri a Rossano Calabro e Vibo Valentia, prima di attraversare lo Stretto: «Sarò a Messina, a Comiso, a Scicli, a Modica. Poi a Gela, a Ravanusa e a Palermo». I due puntano entrambi sull’immigrazione, Meloni torna a proporre il blocco navale e Salvini insiste nel reintrodurre i decreti che portano il suo nome. Giorgia e Matteo potrebbero incontrarsi, «se capiterà ci abbracceremo», dice lui. A ridosso del voto poi potrebbe arrivare in Sicilia anche Silvio Berlusconi, per un giro elettorale a Palermo e, ipotesi più remota, a Marsala, il collegio dove è stata candidata la fidanzata del Cavaliere, Marta Fascina.

Al di là delle eventuali effusioni pubbliche, la concorrenza tra Lega e Fdi è evidente quindi anche dall’agenda elettorale. Di voti in palio ce ne sono molti, basti pensare che in Sicilia il Movimento 5 Stelle sfiorò il 50% dei voti e oggi, sondaggi alla mano, sarebbe un miracolo se arrivasse al 20. Chi si prende quei consensi in uscita? Non tutti Meloni, secondo Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing: «Non sta sfondando al Sud, il M5S ha già ceduto in passato l’elettorato di destra. Fdi potrebbe essere il primo partito in Lombardia e non in Sicilia». Un paradosso per un movimento storicamente radicato più a Roma e nel Meridione che al Nord, che oggi sta cambiando pelle, con il progetto conservatore. Un altro elemento va considerato: Meloni vorrebbe abolire il reddito di cittadinanza, da queste parti è un rischio, «sarebbe strano se chi lo percepisce votasse per chi lo vuole cancellare – spiega Mauro Calise, professore di Scienza politica alla Federico II di Napoli -, anche se questa è una campagna rapida e anomala, per cui certi messaggi magari non arrivano». La fretta è un’arma a doppio taglio per Fdi: «Stavolta non c’è nemmeno il tempo di salire sul carro del vincitore, cosa che qui al Sud succede di frequente», conclude Calise.

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L’eclissi cattolica in politica

lunedì, Agosto 29th, 2022

di Ernesto Galli della Loggia

In Italia esiste un mondo cattolico che pensa, che scrive, che produce opere di ogni genere: ma nel discorso pubblico è un mondo pressoché assente. Nella comunicazione è solo il Papa, infatti, che in qualche modo riesce ancora a farsi sentire, i vescovi e la Cei quasi nulla, mentre politicamente i cattolici nel loro insieme dopo la catastrofe del 1992-94 contano zero. Penso anch’io che per il nostro Paese questo silenzio non sia un fatto positivo, sicché ha fatto bene Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 18 agosto) ad auspicare che il mondo cattolico riacquisti una sua forte voce pubblica e — lo si capisce sebbene egli eviti di parlarne esplicitamente — anche politica.

Nel suo intervento non trova però posto una domanda cruciale: qual è la ragione di questa eclissi cattolica? Perché mai in Italia — ma non solo! — questo precipizio nell’irrilevanza pubblica?

Per la brevità necessaria in questa sede mi limito ad una sola risposta: perché ormai l’identità cattolica appare qualcosa di talmente fluido da essere divenuta priva di connotati precisi, indefinibile, e quindi incapace di porsi come una vera protagonista del dibattito. Per esistere bisogna consistere, infatti. Ma oggi il termine cattolico può consistere in molte cose molto diverse tra di loro: in un adepto di sant’Egidio candidato del Pd come in un innamorato della lezione di don Giussani militante nel centrodestra, in un estimatore del «giusto mezzo» di Montini o in un bergogliano tutto ecologia e periferia.

Anche dal punto di vista diciamo così teologico-religioso ci sono cattolici pronti a scendere in piazza per impedire a una donna di abortire e altri, invece, convinti che dopotutto l’aborto sia una questione da lasciare alla coscienza di ciascuno; quelli per cui ogni guerra è un abominio e quelli per i quali, al contrario, possono esserci anche guerre giuste.

La verità è che sotto l’urto dissolvitore della secolarizzazione, il cattolicesimo non è riuscito nell’impresa — a onor del vero forse impossibile — di trovare una risposta all’altezza della sfida. Di fronte al micidiale combinato disposto di tecno-scienza e individualismo esso è passato da un’opposizione rassegnata ad un’altra, da un accomodamento compromissorio all’altro, da un’illusione benevola all’altra. Ma in questo modo l’identità cattolica, lungi dal conservarsi, si è frantumata in una costellazione di identità. Innanzi tutto perché è andato in frantumi il principio di autorità in precedenza rappresentato dal magistero papale. Che oggi conta, ma solo nella misura in cui si è (o si finge di essere) in accordo con esso.

Il cattolicesimo è così diventato un fatto eminentemente individuale che ogni fedele — o gruppo di fedeli, i cosiddetti «movimenti» — si «costruisce» e si amministra singolarmente come vuole. A tenerlo in qualche modo insieme sembra ormai essere rimasta solo una cosa: al di là della sempre minore frequenza alla messa la funzione sacerdotale, la figura del sacerdote al cui ruolo viene comunque riconosciuto da tutti i fedeli il carisma di unico mediatore del sacro.

Ma per il resto regna davvero il più grande disordine sotto il cielo. A cavallo del secolo, come ricorda lo stesso Riccardi, il cardinale Ruini, allora presidente della Cei, si illuse che almeno intorno ad alcuni «valori non negoziabili» fosse ancora possibile far valere (e difendere) nell’arena pubblica una qualche identità comune a tutti i cattolici. Ma con nessun successo. Si dimostrò allora che anche l’antico principio in necessariis unitas (restare uniti nelle questioni fondamentali) non funzionava più. Nessuno sembrava più credere, almeno all’apparenza, che ci fossero valori realmente non negoziabili. Da allora le pronunce della Conferenza episcopale italiana si limitano non a caso ad alcune paginette dedicate all’auspicio dell’ovvio, cercando in tal modo di mantenere in piedi la finzione di un’unica identità cattolica. Che la Chiesa per prima sa bene essere una finzione, sicché proprio per cercare di mantenerla in piedi non può fare altro — come sta facendo questi giorni in Italia — che raccomandare a se stessa, ancora una volta, il più assoluto silenzio nel dibattito elettorale in corso.

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Giorgetti: «Nuovi aiuti alle imprese, sono come i danni di guerra. Basta con la speculazione del mercato di Amsterdam»

lunedì, Agosto 29th, 2022

di Federico Fubini

Il ministro dello Sviluppo: «Il governo Draghi ha i poteri per agire e lo farà. Bisogna rispondere senza aspettare i due mesi che serviranno per avere un nuovo governo»

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Ministro, Confindustria chiede che il governo di Mario Draghi affronti l’emergenza energia come se non fosse dimissionario. Lo farete?

«Assolutamente sì – risponde il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, della Lega –. Essere in carica per gli affari correnti non significa non avere poteri. Credo di essere stato il primo a sollevare il problema dell’energia più di un anno fa. Oggi bisogna rispondere senza aspettare i due mesi che serviranno per avere un nuovo governo. Sarebbe un disastro economico e sociale».

Se la Lega non avesse dato un contributo determinante a far cadere Draghi, l’Italia gestirebbe questa crisi in ben altra situazione.

«Mi pare che Matteo Salvini abbia visto giusto nel chiedere un armistizio in campagna elettorale. Tutti devono porsi il problema di come affrontare questo frangente. E anche con il sostegno della Lega questo governo – a saldi di bilancio invariati – ha varato moltissime misure, inclusa una di cui non si parla abbastanza: il bonus sociale rafforzato al quale possono accedere famiglie con un reddito Isee fino 12 mila euro e di 20 mila euro se ci sono quattro figli a carico, che si aggiunge a quelli già previsti per persone vulnerabili con più di 75 anni e per i disabili. La misura prevede sconti in bolletta. Abbiamo semplificato molto la procedura, ma occorre che le famiglie che non hanno già un’attestazione Isee la richiedano. Il resto è automatico. Va data la massima pubblicità a questa misura».

Resta aperto il problema delle famiglie con redditi appena più alti e soprattutto quello delle imprese…

«Purtroppo sì. Rischiamo di avere bollette insostenibili . Il problema nasce da prima della guerra, ma la guerra l’ha esasperato. Per moltissime imprese italiane sta venendo meno la convenienza a riaprire».

Serpeggia la tentazione di cedere sulle sanzioni alla Russia per riavere prezzi dell’energia accessibili?

«Va capito il contesto. Abbiamo dichiarato una guerra commerciale alla Russia con le sanzioni, usando meccanismi economici con un obiettivo politico sacrosanto: difendere la libertà. Intanto però, di fronte alla risposta russa alle nostre sanzioni, continuiamo a usare meccanismi strettamente di mercato. Non capiamo che quei meccanismi sono utili in tempo di pace, ma falliscono in tempo di guerra».

Cosa intende?

«Lenin diceva: i capitalisti ci venderanno la corda a cui li impiccheremo. Oggi il prezzo del gas è legato al Ttf di Amsterdam, un piccolo mercato speculativo che Vladimir Putin si diverte a far impazzire. Questo è un finto sistema di mercato, così come lo è l’ostinazione in Europa nel tenere il prezzo dell’elettricità agganciato a quello del gas benché tanta energia elettrica sia prodotta da altre fonti molto meno costose. Questi sono sistemi concepiti per funzionare in tempo di pace, non di guerra. Perciò l’Italia chiede un tetto europeo al prezzo del gas e di sganciare quest’ultimo dalle tariffe elettriche».

Che chance ci sono di riuscire?

«Sul tetto sono pessimista. L’atteggiamento contrario di Germania e Olanda, benché ingiustificabile, non cambia. Invece ci sono aperture da parte tedesca per liberare i prezzi dell’elettricità da rinnovabili, molto più bassi, da quelli del gas. Ne ho parlato di recente anche con Robert Habeck, il ministro dell’Economia di Berlino. Mi pare ci si possa lavorare».

Per l’Italia, Confindustria e lo stesso Salvini chiedono il modello francese: riservare alle imprese una quota di energia elettrica a prezzi sussidiati dallo Stato. Fattibile?

«È un modello. In Spagna il governo attua un tetto sulle tariffe elettriche compensando i produttori della differenza, mentre in Gran Bretagna si lavora su un intervento a supporto del sistema bancario. Ogni Paese ha possibilità diverse, ma anche da noi qualcosa andrà fatto. L’alternativa è semplice: tante aziende avranno più interesse a fare cassa integrazione che a riaprire a settembre. L’impatto generale sulla ricchezza del Paese rischia di essere molto maggiore del costo di qualunque misura di sostegno».

Alcune di queste in Italia possono pesare per decine di miliardi.

«È così. Ma durante la pandemia giustamente l’Europa ha sospeso le regole, permettendo ai Paesi di fare scostamenti di bilancio. Questa è un’emergenza economica e sociale ed è il focolaio da cui parte l’inflazione: se avessimo potuto sterilizzare gli aumenti per i consumatori da subito, non avremmo adesso questi aumenti dei prezzi».

Ma il debito pubblico è già alto e i costi colossali…

«Non si tratta di fare spesa allegra, ma di pagare danni di guerra indiretti al sistema produttivo, dopo la decisione di aprire un conflitto commerciale con la Russia. Se le acciaierie italiane si fermano, chi fornisce i materiali al sistema industriale del Paese?»

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Caro bollette, la linea di Palazzo Chigi: pronti a misure, no a maggiore deficit

lunedì, Agosto 29th, 2022

di Enrico Marro

Calma e gesso, i criteri di azione del governo non possono seguire le frenesie della campagna elettorale. Una cosa è il monitoraggio dell’emergenza energia, che non è venuto mai meno, e l’esame delle ulteriori misure che possono essere messe in campo in relazione alle risorse disponibili, un’altra sono i proclami dei partiti lanciati a poche settimane dal voto. Queste le riflessioni che si fanno a Palazzo Chigi, dove oggi il sottosegretario alla presidenza, Roberto Garofoli, coordinerà le prime riunioni istruttorie per vedere che margini ci sono per un nuovo decreto legge di aiuti a imprese e famiglie contro il caro bollette. Provvedimenti che però, spiegano i tecnici, difficilmente arriveranno questa settimana.

«Come minimo – spiegano – bisogna aspettare i dati delle entrate a tutto agosto e poi vedere eventuali altre risorse disponibili tra i residui di spesa, per capire se c’è lo spazio per interventi percettibili», anche se nessuno crede si potrà arrivare ai 20-30 miliardi che chiedono le forze politiche. Detto questo, Draghi, se i partiti gli chiederanno un incontro, certamente sarà disponibile. Ma la linea del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia, Daniele Franco, non è cambiata rispetto al fatto che anche i nuovi aiuti, come i precedenti, non dovranno essere coperti con lo «scostamento di bilancio», ovvero con un aumento del deficit. Una richiesta avanzata in maniera trasversale (dal leader della Lega, Matteo Salvini, a quello di Azione, Carlo Calenda) che Draghi trova curiosa, a poco più di venti giorni dal voto. Quasi un escamotage per scaricare sul premier uscente e su un governo in carica per gli «affari correnti» la grave responsabilità di una decisione che potrebbe andare incontro alle censure della commissione europea ed esporre l’Italia alla speculazione sui mercati finanziari.

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