Quell’inutile ossessione per la privacy, tanto ci conosciamo tutti (per fortuna)

Concita De Gregorio

Una piccola storia personale che mi fa sorridere e pensare da giorni: sull’ossessione per la privacy in cui viviamo immersi, in certe occasioni burocratiche un vero delirio, e sull’essere – questa sulla privacy – una battaglia inutile. Perché in un attimo, in una platea di sconosciuti identificati solo da un numero, tutti ci scopriamo collegati. Tutti sappiamo ogni cosa di ciascuno, siamo in grado addirittura di avere accesso ai propri gusti personali, agli amici comuni, ai reciproci numeri di telefono. E meno male, nel caso che sto per raccontare. La storia è questa.

Entro come ogni giorno nella grande sala d’attesa di un luogo pubblico dove passerò in compagnia di un centinaio di persone le prossime ore. Ci conosciamo, da mesi, ma non ci conosciamo: siamo identificati da sigle, questione di privacy. Mi accorgo di non avere il telefono. L’ho lasciato a casa o l’ho perso, non so. Il luogo dove sono è lontanissimo dal posto dove vivo, non avendo telefono non posso noleggiare un’auto in car sharing per tornare a casa, non posso chiamare un taxi (non ce ne sono mai, al parcheggio).

Mi ero accordata così, uscendo: quando ho finito chiamo, venitemi a prendere. Naturalmente non potrò chiamare. A un certo punto, forse a tarda sera, sarò chiamata per avere mie notizie e non potrò rispondere. Si annuncia una serata infernale. Prima considerazione su cui riflettere: non so nessun numero a memoria. Ricordo solo quello fisso della mia casa di ragazza, ma mia madre ha creduto alla vantaggiosa offerta di uno degli operatori che chiamano senza tregua, si è fatta convincere e l’ha cambiato. Ricordo un numero morto. Certo, è un problema mio: senz’altro voi saprete a memoria il numero di cellulare del coniuge, dei figli o dei fratelli, di un amico. Io no, scopro in quel momento. Non ci avevo mai pensato. Che brutta cosa, no?, affidarsi alla tecnologia e rinunciare alla memoria. Ma andiamo avanti. Come faccio ad avvisare qualcuno di cui non conosco il numero? Posso chiedere a una delle persone in sala d’attesa di prestarmi il telefono, ma poi? Chi chiamo, se non so il numero?

I social network. Posso entrare su Instagram, su Facebook o quel che sia di uno dei miei figli e mandare un messaggio, per esempio. Proviamo. Le persone in sala d’attesa sono solo numeri. E126. A405. Siamo tutti coperti da mascherine, oltretutto: non ci riconosceremmo fuori da qui, ne sono certa. Qui ci distinguiamo dagli occhi, brevi cenni di saluto con la testa. Qualche giorno fa, però, U307 – una ragazza molto giovane, gentile – mi ha raccontato di essere un’appassionata lettrice, mi ha fatto il nome di alcuni autori che ama, abbiamo parlato di libri e salutandomi mi ha detto piacere, Francesca. Vado da Francesca. Le chiedo di entrare sul profilo Facebook o Instagram dei miei familiari per mandar loro un messaggio. Lo fa, ma il problema è che i miei familiari non la seguono, non sono – naturalmente – suoi follower. Dunque, siccome per le regole dell’Internet se non sei “amico” non puoi scambiare messaggi né, figuriamoci, telefonare attraverso quel mezzo, attendiamo che i destinatari della richiesta accettino l’amicizia.

Sono le quattro del pomeriggio, passo in rassegna mentalmente cosa staranno facendo i miei consanguinei nelle loro vite, escludo una reazione abbastanza rapida da evitare le serata infernale. Mai disperare, ma cerchiamo altre vie. Intanto l’attenzione della platea della sala d’attesa si concentra su di noi: consigli, altri telefoni che si attivano, un certo entusiasmo per la novità inattesa, un pezzo di vita che si incunea nell’abituale tran tran. Solidarietà fra numeri.

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