Autonomia, gli effetti sulla Sanità: così si allarga il divario tra le regioni

PAOLO RUSSO

ROMA. L’autonomia differenziata finirà per sbriciolare quel po’ di solidaristico che ancora c’è nel nostro servizio sanitario nazionale a vantaggio delle regioni più ricche e a tutto discapito di quelle messe peggio. L’allarme ieri lo hanno dato i governatori del sud e l’Ordine dei medici, insieme agli esperti del settore. Tutti contrari al disegno di legge approvato dal governo, che minaccia di accentuare le diseguaglianze che in sanità sono casomai da ripianare. E il problema non è tanto la divisione delle competenze, che saranno stabilita dalle intese siglate dalle singole regioni con lo Stato. A quest’ultimo già oggi restano infatti di esclusiva competenza solo la profilassi internazionale, i contratti del personale sanitario e i Lea, i livelli essenziali di assistenza, che elencano le prestazioni mutuabili su tutto il territorio nazionale. Il ddl su questo si limita a un cambio di nome, trasformando i Lea in Lep, i Livelli essenziali di prestazioni, che dovrebbero essere uguali da nord a sud. Ma che il condizionale sia d’obbligo lo dice l’articolo 5 del ddl Calderoli, dove si specifica che ogni intesa Stato-regione «individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi o entrate erariali maturato nel territorio regionale». E siccome le più ricche regioni del centro-nord potranno attingere a un gettito fiscale maggiore di quelle del sud, è chiaro che i Lep o i Lea che dir si voglia non saranno affatto uguali da un punto all’altro dello Stivale.

Già oggi ci sono regioni che finanziano con le entrate proprie una fetta dei servizi sanitari offerti ai propri assistiti. Anche se il 10% lo superano soltanto la Valle d’Aosta (13,8% del finanziamento totale e la Liguria (10,4%). Ma a marcare la vera differenza è il sistema di riparto del fondo sanitario nazionale, che dando maggiore peso alla popolazione anziana anziché alla deprivazione sociale, finisce per avvantaggiare le regioni più ricche. Al netto delle risorse per la lotta al Covid il Crea sanità ha evidenziato che la spesa pro-capite raggiunge il suo apice in Emilia Romagna con 2.200 euro, seguita da Valle d’Aosta a 2.150 e con una manciata di euro in meno dalla Liguria, Ma ad accezione del Molise le regioni del sud vanno dai duemila euro a scendere, fino ad arrivare al minimo della Calabria con poco più di 1.900 euro.

Come ha rilevato di recente la Corte dei Conti, non sempre alla maggiore disponibilità di denaro corrisponde un migliore livello dei servizi. Perché poi entrano in gioco fattori come quello del personale – che al sud è più carente- e dell’organizzazione. Però la differenza di qualità tra ricchi e poveri c’è e si vede.

Sempre il Crea nel suo ultimo rapporto annuale ha dato i punti alle regioni sulla base di 18 indicatori, che comprendono la quota di persone che rinunciano alle cure causa liste di attesa, la quota di anziani e disabili che ricevono le cure domiciliari o i tassi di copertura degli screening oncologici, che solo per focalizzarci su quelli al seno passano da un 63% al nord al 53% del centro per finire al 41% del sud. Esaminati tutti gli indicatori Veneto ed Emilia Romagna superano i 50 punti, mentre le altre regioni del nord fluttuano tra 48 e 40, con un pelo sotto Piemonte e Valle d’Aosta. Ma tutte le regioni del Sud, Lazio compreso, vanno da 30 in giù, con la Calabria ultima nella classifica dei finanziamenti e altrettanto in quella delle performance.

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