Europa e Stati Uniti, un fronte che resiste

di Paolo Mieli

Più che l’invio dei carri armati all’Ucraina quel che conta (e che irrita Mosca) è il valore simbolico del fatto che ancora una volta l’alleanza a sostegno di Kiev abbia tenuto

Non è vero che con il discorso pronunciato ieri sera dal presidente americano Biden e la decisione congiunta di Stati Uniti ed Europa di inviare in Ucraina — con modalità diluite nel tempo — alcune decine di carri armati di nuova generazione si sia saliti di un gradino sulla scala che porta alla guerra mondiale. Forse è stato consentito all’Ucraina di resistere ancora per l’anno in corso. Niente di più. Del resto, gli stessi russi minimizzano il potenziale impatto dei carri armati tedeschi e americani. In assoluto, quel che conta — e che irrita Mosca — è il valore simbolico del fatto che ancora una volta Stati Uniti ed Europa sono riusciti a restare assieme. E, se guardiamo indietro all’anno iniziato con l’aggressione del 24 febbraio 2022, ha del miracoloso che il fronte della Nato non sia inciampato nelle numerose pietre che ha incontrato sul suo cammino.

Allo stesso modo ha dello straordinario il fatto che il Parlamento italiano si sia impegnato a comportarsi nel 2023 negli identici modi degli undici mesi trascorsi. Certo, si è perso per strada il M5S. Ma Giuseppe Conte già a luglio provocò la crisi del governo Draghi per rimettere in discussione le modalità del sostegno italiano all’Ucraina.

Assai importante è invece che il Pd sia rimasto sostanzialmente sulle posizioni che ebbe l’anno scorso. E che sia rimasto compatto (con l’eccezione di qualche elemento proveniente dalla diaspora bersaniana). A Enrico Letta va riconosciuto il merito d’aver inchiodato saldamente il partito a posizioni atlantiche. Posizioni che, chiunque vinca al prossimo congresso, dubitiamo saranno tenute in vita con altrettanta convinzione. Nel Pd, al di là di chi sarà il prossimo segretario, avrà un peso maggiore la componente «filocontiana». E, ad ascoltare i rumori di fondo, appare possibile che prendano il sopravvento personalità più refrattarie a rinsaldare il rapporto con l’Alleanza atlantica. Tant’è che la questione del «pacifismo» (forse di proposito) è stata tenuta fuori — al di là di qualche cenno assai generico — dalla non breve campagna che porterà all’elezione del nuovo vertice.

Del resto, di posizioni pacifiste o sottilmente filorusse, ne sono emerse in tutta Europa. Anche negli Stati Uniti e in tutti i Paesi i cui governi, pure, hanno preso le parti dell’Ucraina. Una cosa assolutamente normale, fisiologica, del tutto prevedibile. Di più: ci saremmo preoccupati se avessimo ascoltato solo voci inneggianti alla guerra come capitò quasi ovunque nel 1914 alla vigilia del primo conflitto mondiale. Bisogna anche riconoscere che talvolta nelle argomentazioni dei predicatori che fin dal giorno successivo a quello dell’invasione russa hanno sostanzialmente suggerito a Kiev di arrendersi, si son potuti cogliere ragionamenti meritevoli di un qualche interesse e di essere pubblicamente discussi.

Ma solo in Italia questi ragionamenti sono stati poi accompagnati da espressioni di dozzinale dileggio nei confronti di Zelensky. Zelensky — secondo loro — altro non sarebbe che un disgraziato attorucolo, in cerca di visibilità, cinico, nemico — per convenienza — di ogni soluzione pacifica. Sono piuttosto i pacifisti di sinistra che volentieri hanno ripiegato su questo genere di denigrazione. Quelli cattolici — va riconosciuto — raramente hanno fatto ricorso all’oltraggio antizelenskiano. Ed è una differenza non trascurabile.

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