Ciao campione, ci hai fatto battere il cuore

Gigi Garanzini

Scrisse una volta il sommo Brera che i campioni meriterebbero di morire giovani, nel pieno della loro gloria, ed essere trasportati in Olimpo su un carro di fuoco. Per uno sberleffo del destino toccò proprio a lui quella sorte, già in età surmatura. Da allora il paradosso breriano è un tormento in più che si somma al dolore quando uno dei grandi se ne va.

Perché nella rétina come nella mente è sul campo che torniamo a riviverli, ai tempi in cui ci facevano battere il cuore. Quando Vialli la insaccava sotto la sud di Marassi, e se non erano svelti ad abbracciarlo lui partiva con le capriole e c’era rischio che esondasse il Bisagno là fuori. Quello scudetto impossibile, firmato da un grande presidente, Mantovani, dalla saggezza dello zio Vujadin, da una signora squadra le cui punte di diamante si chiamavano Mancini e Vialli. Il cui abbraccio di un anno e qualcosa fa sul prato di Wembley, dove avevano perso al fotofinish una finale di Coppa Campioni e appena consumato la rivincita firmando l’Europeo, rimane un’immagine indelebile e struggente. Oggi poi insopportabile. Perché tutti e due sapevano, non solo Gianluca, che il destino restava in agguato.

Adesso che ha fatto il suo corso, il primo sforzo da compiere è proprio quello. Rimuovere il ricordo più recente della lunga sofferenza e ripercorrere il cammino del vero Vialli. Quello partito da Cremona, e da lì a proposito di Brera lo strepitoso ri-battesimo, Stradivialli, e atterrato da capitano bianconero sull’ultima Champions della Juve, 1996. Con un’appendice di grande prestigio al Chelsea, in campo e in panchina, sino alla definitiva scelta di vita londinese. Il carattere non gli mancava di sicuro. Dentro e fuori il rettangolo. Il primo, e più significativo esempio, è che si diceva e si dice essere la fame il vero propellente di un calciatore, di un’atleta. Di famiglia agiata, Vialli la fame non l’ha mai nemmeno immaginata. Ma non è facile trovarne un altro che in campo si sia sempre speso come si spendeva lui. Che trascinasse, anziché farsi servire: che ci mettesse sempre il massimo della quantità anche nelle rare giornate in cui la qualità non era la solita. Un centravanti a tutto campo, ala destra in origine come già era accaduto a Paolo Rossi, dotato in egual misura di agilità e di potenza. Con il gusto, a volte il vezzo anche dell’acrobazia. Era stato Vicini, a sua volta ex-doriano, il primo ad accentrarlo nell’Under 21: figurarsi se Boskov, che con Azeglio aveva giocato, si lasciava sfuggire l’intuizione.

In quella seconda metà degli Ottanta la Samp faceva collezione di Coppe Italia. Grasso che colava, come no, ma quelli nel frattempo di erano messi in testa l’idea meravigliosa. Così quando Berlusconi mise sul piatto un’offerta delle sue, Mantovani chiamò a sé Vialli, Mancini e Vierchowod e chiese loro se se la sentivano di restare e provarci, con opportuni rinforzi. Vialli col Milan una mezza parola l’aveva spesa. La girò sul versante Fininvest, e me lo ritrovai in un programma settimanale. Che bel tipo. E quanto calcio ho imparato, troppo tardi ahimè, in sala di montaggio. Rallenta, torna indietro. Come fa a non essere rigore, se il piede davanti è quello dell’attaccante? Sai che mazzo mi faccio io a smarcarmi di qua e di là sempre con l’idea fissa di metterci il piede per primo? Anni ’80, per l’appunto: oggi toccherebbe rifare l’audio perché smarcarsi è diventato attaccare lo spazio.

Il meglio di sé televisivo lo dava con Fazio, blucerchiato nel midollo, quando una volta l’anno andava da lui con Mancini. Ma è stato poi un’opinionista di spessore vero negli anni di Sky, la cui costola italiana aveva contribuito a creare per via dell’amicizia con Murdoch.

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