Una destra sospesa fra Tambroni e Berlusconi

Pare un’altra era geologica, quando Meloni proprio per il piano-trivelle bollava Renzi come “schiavo delle lobby dell’energia” (aprile 2016), giudicava l’Europa “una banda di usurai” (marzo 2015), considerava l’euro “una moneta sbagliata, per questo proponiamo un’uscita ordinata e concordata” (gennaio 2018), vaticinava “un’Unione così è destinata a non esistere domani” (marzo 2020). Altroché “è finita la pacchia”, come ha tuonato nel famoso comizio di Milano, quindici giorni prima del voto, quando era ancora in “modalità Vox”. Altro che “discontinuità” rispetto ai precedenti governi, come ha ripetuto nel discorso sulla fiducia alle Camere, appena una settimana fa: in questo caso la premier è senz’altro “discontinua”, ma nei confronti di se stessa. Mi rendo conto che è difficile ammetterlo, per una Donna Alfa come lei, che ha vinto le elezioni anche grazie a una narrazione fortemente improntata alla “coerenza”. Ma anche per lei, fatte le debite proporzioni, vale quello che valse per i reprobi a Cinque Stelle: cambiare idea, rimangiandosi dal banco del governo i vaniloqui psichedelici che si strillavano allegramente dagli scranni dell’opposizione, non è un disvalore. Più semplicemente, si tratta di risvegliarsi dai bei sogni e di prendere atto della dura realtà. Basta avere il coraggio di ammetterlo, di fronte al Parlamento e al Paese. Hallowen è appena passata. Ma nel prosieguo della legislatura Meloni dovrà scegliere, una volta per tutte: Ducetta o Draghetta?

LA STAMPA

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