Draghi e Meloni: tutte le «sorprese» del passaggio di stagione e di governo

di Ferruccio de Bortoli

Li unisce una chimica di reciproca simpatia umana e di rispetto, non ostacolata, anzi, dalla comune cittadinanza romana. Nulla di paragonabile a quello che accadde quando si arrivò nel 2018 alla formazione del Conte 1, grazie alla «empia alleanza» fra i due populismi che oggi si guardano in cagnesco — Cinque Stelle e Lega — e nemmeno nell’ascesa di Matteo Renzi ai danni di Enrico Letta, peraltro esponenti dello stesso partito, o tra lo stesso Conte e Draghi, vista la quasi inesistenza di un rapporto personale tra i due. Dunque il cammino, soprattutto di politica economica è in salita ripida ma non ripidissima.

Giorgia Meloni non è però fortunata. Non poteva esserci momento peggiore, dal punto di vista della congiuntura economica, per arrivare al potere dopo decenni di infinita attesa. Uno scherzo del destino. Perché l’era dei tassi bassi o negativi, e dell’abbondanza di liquidità, è ormai finita. L’inflazione morde il potere di acquisto delle famiglie e minaccia la vita delle aziende, soprattutto piccole e medie, più esposte al caro energia. Lo scenario economico che si staglia all’orizzonte del prossimo esecutivo è, per paradosso, terreno ideale, anche se non preferito, per un banchiere centrale. Il campo di azione nel quale può saggiare (verbo appropriato) la validità di una manovra sui saggi cioè i tassi d’interesse, la principale arma della politica monetaria. È più facile inondare di liquidità i mercati, sperando di innalzare l’inflazione all’obiettivo di stabilità al 2 per cento, che fare l’opposto.

Il caso ha voluto che nell’anno e mezzo abbondante in cui ha governato (bene) il Paese, l’ex governatore della Banca d’Italia abbia dovuto affrontare situazioni seppur drammatiche — causa la pandemia e la guerra — ma sostanzialmente ideali sul piano delle politiche economiche, grazie alla sospensione delle regole di bilancio e l’assenza di alcun freno all’indebitamento. L’esatto opposto della situazione che si trovarono ad affrontare Carlo Azeglio Ciampi, nel 1993 dopo la crisi della lira dell’anno precedente, e Monti nel drammatico autunno del 2011. Sia Ciampi sia Monti hanno avuto, seppur in condizioni diverse, l’incubo quotidiano dello spread (e infatti il futuro presidente della Repubblica andava sempre in giro con il foglietto sui tassi italiani e tedeschi). Draghi no. Come se il suo whatever it takes del 2012 lo avesse reso immune, da quel pensiero insistente, anche nella veste di premier.

Inversione storica

La Storia inverte i ruoli in maniera curiosa. Giorgia Meloni e il suo governo, quando e come nascerà (la collezione di no che ha ricevuto per il ministero dell’Economia è già da Guinness dei primati) questa immunità non l’avrà. Il punto è esattamente questo. Lei lo sa, i suoi riottosi e malmostosi partner di governo — specie dopo la figuraccia di essersi divisi nell’elezione del presidente del Senato, Ignazio La Russa — sembra di no. Lo scarso tempo a disposizione per scrivere la legge di Bilancio per il 2023 è però un vantaggio. Non si potrà dar seguito immediato alle proposte più insidiose per la tenuta dei conti pubblici, forse nemmeno a quell’ampliamento dell’area della flat tax per gli autonomi e le partite Iva o all’ipotesi della tassa piatta incrementale.

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