Rosy Bindi: “Il congresso è accanimento terapeutico, i dem vadano verso lo scioglimento”

Francesca Schianchi

ROMA. «La sconfitta del centrosinistra ci accomuna tutti e viene dal lontano». Parte da questo assunto l’appello diffuso ieri da venti personalità del mondo cattolico, ex Pd, intellettuali considerati vicini al M5S, da Domenico De Masi a Tomaso Montanari. Un invito ad aprire «un nuovo cantiere», spiega una delle promotrici, la ex presidente del Pd Rosy Bindi, che ricostruisca la sinistra.

Per trasformare in opportunità, dite voi, una sconfitta comune che viene da lontano. Da dove, secondo lei?

«Non c’è stata condivisione di un progetto politico che unisse ai valori del nostro campo la cultura di governo. E che sapesse interpretare l’esigenza di un radicale cambiamento che la situazione impone».

Detta più semplicemente?

«Vede, da una parte il Pd ha preferito rimanere al governo anche in momenti in cui sarebbe stato meglio andare a votare…».

Per «malinteso senso di responsabilità quando non per brama di potere», scrivete.

«Io penso più spesso per senso di responsabilità. Ma questa scelta l’ha consegnato a un’afasia: così facendo, il Pd non si è mai dedicato a se stesso. Prendiamo la scalata renziana: mai è stata elaborata. C’è una classe dirigente che mi sono chiesta spesso perché stia insieme».

Poi ci sono i Cinque stelle, che si autodefiniscono il vero punto di riferimento dei progressisti…

«Questo potrebbe essere un rischio. Io sono contenta se sono approdati al campo progressista, e spero non sia solo una mossa tattica. Ma nessuno può vantarne il monopolio».

Quindi la proposta qual è?

«Essere tutti pronti a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento dell’esistente, per costruire un campo progressista coinvolgendo quelle realtà sociali che già interpretano il cambiamento e non trovano rappresentanza politica».

Sta pensando allo scioglimento del Pd?

«Sì. E ci risparmi la resa dei conti interna, perché la ritualità del congresso è ormai accanimento terapeutico».

Già ci sono nomi in campo.

«Ci evitino questo spettacolo».

Voi scrivete che è stato un errore andare divisi. Ma di chi è l’errore?

«Quando Letta divenne segretario, mi permisi di dargli un consiglio: il Pd sostenga con lealtà il governo Draghi, ma non si dica al Paese che questo è il nostro governo».

L’esatto contrario di quel che ha fatto Letta.

«Il Pd non doveva identificarsi con l’agenda Draghi, ammesso che sia mai esistita, perché si trattava di un governo di larghe intese. Bisognava garantire lealtà, sì, ma guardando al futuro. Come sulla guerra: non doveva esserci nessun dubbio da che parte stare, ma come starci forse sì, per esempio rivendicando l’autonomia dell’Europa nell’Alleanza atlantica. Se ti appiattisci sul governo Draghi, è naturale che non puoi fare alleanze con chi lo fa cadere».

Mi pare dia la responsabilità al Pd.

«Errori ne sono stati fatti un po’ da tutti, ma forse il partito principale ha qualche responsabilità in più… Dopodiché è vero anche che Conte e il M5S non erano portati a fare un accordo, perché troppo interessati alle sorti del proprio partito».

E il rapporto con Calenda?

«Nel nostro appello, Calenda non è un interlocutore. Anche se spero che tutti capiscano l’importanza di una opposizione unitaria: la maggioranza esiste anche nei Paesi non democratici, l’opposizione solo in democrazia».

Dà un giudizio severo del segretario Letta, o sbaglio?

«In realtà sono più severa con i suoi predecessori. Ho apprezzato lo stile con cui non ha abbandonato il campo, con un fax come Martinazzoli o a male parole come Zingaretti. Ma non apprezzo l’idea che sia sufficiente accompagnare il Pd a un congresso ordinario».

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