Draghi, piena collaborazione per il passaggio di consegne. «Ma non faccio da garante»

A sentire Palazzo Chigi no, non c’è nulla di vero. Il premier nei suoi «regolari contatti» con gli interlocutori internazionali discute «dei principali dossier in agenda» e non parla di Meloni, Salvini, Berlusconi e del governo in costruzione. Quando Draghi ha affermato che l’Italia è un grande Paese e ce la farà «con qualunque governo», anche in virtù dello spirito repubblicano, lo ha fatto da «uomo di Stato» e non certo per esprimere un endorsement verso colei che allora era la favorita delle elezioni. I collaboratori del premier assicurano che si guarda bene dal porsi come «mentore, garante o lord protettore». Tantomeno di leader e partiti le cui agende non coincidono con la sua su punti fondamentali, come il rapporto con la Russia, lo scostamento di bilancio (vedi alla voce Salvini, ndr) e la politica di contrasto al Covid, su cui l’opposizione di Fratelli d’Italia è stata molto aggressiva.

Per quanto abbia rispetto del voto degli italiani e di Meloni, che sulla guerra si è mossa in sintonia con il governo, il premier non pare intenzionato a mettere in gioco la sua reputazione per fare da scudo a un esecutivo a trazione sovranista. Quanto alla finanziaria, Draghi si tira fuori. Tra Palazzo Chigi e via XX Settembre si mette in chiaro che il compito del governo uscente è indicare con la Nadef la cornice economica complessiva e le prospettive di crescita del Paese, ma l’onore e l’onere di scrivere la legge di Bilancio spetterà a Meloni e al suo governo.

CORRIERE.IT

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