Le eurocrazie che ora temono la nuova Italia

Lucio Caracciolo

Il problema dell’Italia è che vale molto più di quanto conti. In tempo di guerra questo sbilancio fa tutta la differenza. Perché è l’ora della verità. Le narrazioni lasciano il fumo che trovano. Contano i rapporti di forza basati sui duri fatti, sulla capacità di interpretarli e di comunicarli strategicamente. Misto di hard e soft power, con le brevi pause e le accelerazioni brusche delle montagne russe. Sul mercato delle relazioni fra Stati, lo iato fra soggetti e oggetti, fra potenze e impotenze, continuerà ad allargarsi fino alla prossima pace, che non pare così prossima. Il nostro paese, che per quasi otto decenni ha goduto dei formidabili vantaggi della sovranità limitata nel contesto euroatlantico, è molto meno attrezzato di altri ad affrontare l’emergenza.

Oggi sia il protettore di ultima istanza (America) sia i soci del sistema europeo – allestimento da bel tempo che si sfarina quando comincia a piovere forte – hanno priorità diverse dall’Italia. Si occupano della stretta tutela dei propri immediati interessi, meno del sistema internazionale di riferimento. Ognuno protegge sé stesso, usa per quanto può risorse altrui a fini propri. Non per ostile disposizione d’animo. Pura necessità. Oggi il Belpaese è preda troppo attraente per non suscitare appetiti in amici e nemici che scrutano le “eccellenze” – tradotto: gli oggetti di valore che ornano il nostro open space – e studiano come appropriarsene. O impedire che lo facciano i rivali. Se compariamo l’invidiabile patrimonio materiale e immateriale di noi italiani con le istituzioni che dovrebbero amministrarlo otteniamo la misura del rischio che stiamo correndo. La drammatica carenza di Stato è sopportabile e perfino virabile in vantaggi particolari nelle fasi di bonaccia, insopportabile e pericolosa durante la tempesta. Si può restare incuranti del debito fuori controllo, dunque della dipendenza dai mercati finanziari – strutture geopolitiche, non banalmente economiche – e dell’impossibilità di difenderci in caso di aggressione per mancanza di mezzi e di volontà? Parrebbe di sì. L’uragano ci coglie in assorta contemplazione del nostro ombelico. Esercizio dominante nella campagna elettorale, che da noi comincia dopo le elezioni e non finisce col voto. Quando i nostri rappresentanti alzano lo sguardo oltre confine è per spendere le sentenze di autorevoli media europei o americani – non informatissimi sull’Italia – sul mercato politico nostrano. Spesso producendo acrobatici autogol.

Il tema del momento è se il governo di centrodestra ci rende più deboli in ambito comunitario e atlantico. Temiamo di sì mentre speriamo di no (qualcuno spera di sì, forse perché domiciliato altrove). Dopo 67 governi repubblicani dovremmo aver colto che il nostro destino è largamente indipendente da chi siede a Palazzo Chigi e dall’esecutivo che presiede. E che il glorioso vincolo esterno, non concesso fosse un’idea geniale, nel mondo del ciascun per sé nessun per tutti è contraddizione in termini. La funzione essenziale del governo di uno Stato che non funziona in un sistema geoeconomico e geopolitico in fibrillazione è di vendere al meglio l’immagine del paese presso le opinioni pubbliche e i decisori esteri che contano. Per proteggere il residuo capitale di fiducia di cui possiamo ancora godere, se possibile allargandone i margini, con l’interessata complicità delle superiori potenze o di quel che ne resta. Contiamo sull’interesse altrui a partecipare alla seduta d’illusionismo. Fin quando esiste.

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