Da Zaia ai “nordisti”, nella Lega tira aria di fronda

Alberto Giannoni

«Si salvi chi può». Nel day after della Lega è già iniziata la resa dei conti. In via Bellerio si aspettavano una sconfitta, ed è arrivata una batosta. Avevano messo in conto un risveglio agrodolce, è invece è stato un lunedì nero.

Matteo Salvini ieri mattina ha provato a rilanciare, tentando di giocare il suo «titolo» sulla «quota 100» – i deputati eletti – però nel partito si stanno aprendo già le prime crepe.

Il governatore veneto Luca Zaia parla di un risultato «assolutamente deludente», e chiede una «analisi della sconfitta», che – tradotto – significa una cosa precisa: così non va. Ora si cerca di capire che forma potrà prendere questo malcontento, mentre l’eminenza grigia Giancarlo Giorgetti – rieletto alla grande a Sondrio – aspetta o si defila.

Salvini ha compilato le liste a sua immagine e somiglianza, garantendosi gruppi parlamentari fedeli – fino a prova contraria – ma al contempo esponendosi al rischio di un montante malcontento di esclusi e non eletti. Qualche voce critica si è già levata ieri, le prime domenica notte. Gianmarco Senna, consigliere regionale milanese, non certo nemico di Salvini, ha pubblicato un vecchio simbolo della Lega Lombarda, e un ragionamento che conduceva a una questione identitaria: «Torniamo a chiederci chi siamo». Stentoreo invece l’attacco dell’ex segretario lombardo Paolo Grimoldi, che proprio durante la conferenza stampa del segretario è partito alla carica, parlando di un «disastro assoluto» che imporrebbe «dimissioni immediate». Il consigliere regionale ed ex senatore Roberto Mura ha scritto: «Lega Salvini Premier: un disastro annunciato», e l’ex presidente del Copasir Raffaele Volpi, appena uscito dalla Lega, ha pubblicato un quadro eloquente: «La caduta di Icaro».

Lo stato maggiore salviniano, a partire dal «Capitano», è sul banco degli imputati. Può aggrapparsi all’affermazione del centrodestra, che tornerà al governo garantendo qualche incarico, ma l’exploit della coalizione è una foglia di fico che serve solo a ritardare il momento del «redde rationem». Il 10% che si ventilava alla vigilia sarebbe stato un arretramento severo, ma gestibile; l’8,9% che è arrivato è un tracollo. E i risultati sono impietosi soprattutto al Nord. In Lombardia FdI doppia la Lega (27,6% a 13,9%) che a Milano va sotto il 7%. In Piemonte il confronto è anche peggiore: 26,9 a 10,9%. Non va molto meglio in Veneto: 32,6 per FdI, 14,6% per la Lega. Per non parlare del Friuli Venezia-Giulia, dove Giorgia Meloni conquista tre volte tanto i voti del Carroccio: 32,3 contro 10,9.

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