Il ruolo dei tecnici in politica e le tante anomalie d’Italia

Alle elezioni di quell’anno si presentò senza candidato e fu battuto — di misura — da Berlusconi. Poi la sindrome fu superata, fu trovato un leader nella figura di Prodi (che però aveva l’handicap di non essere capo del partito di maggioranza relativa) e per un decennio la questione fu risolta anche a sinistra. Ma, uscito di scena Prodi, la strana sindrome del ’94 si è ripresentata.

Nell’epoca intercorsa tra l’esperienza di Monti e quella di Draghi (2011-2022) il Pd non ha neanche più provato a conquistare la maggioranza dei voti e dei seggi parlamentari con una propria coalizione di governo. Mai più ha presentato agli elettori un candidato premier. Pierluigi Bersani che avrebbe potuto esserlo se si fosse andati al voto nel 2011, due anni dopo fu costretto a constatare che l’occasione giusta era andata persa. Da allora il Partito democratico si è specializzato nell’arte di giostrarsi nel caos parlamentare, contribuire alla nascita di coalizioni emergenziali e far poi durare la legislatura fino alla fine naturale facendo leva sull’attaccamento degli eletti al posto precedentemente conquistato.

Questo metodo porta con sé indubbi vantaggi: presenza assicurata nel governo e nel sottogoverno, totale deresponsabilizzazione a fronte delle scelte più impegnative, irrilevanza di eventuali insuccessi elettorali. Ma, ora che è finita la campagna elettorale, sorge il dubbio che questo modo di prospettare il proprio futuro — facciamoci eleggere, poi sistemeremo le cose in Parlamento, contando sull’immediato tracollo degli avversari e, nel caso, chiamando a Palazzo Chigi un nuovo supertecnico — possa garantire una qualche affidabilità. Né ci sembra che una prospettiva del genere possa costituire per Mario Draghi un richiamo irresistibile.

CORRIERE.IT

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