Le barriere tra i partiti e le imprese

Eppure al di là anche della drammatica partita del prezzo del gas — descritta giustamente come uno tsunami — l’industria meriterebbe ancor più attenzione che in passato. L’invasione russa dell’Ucraina non ha solo messo in crisi l’idea irenica della globalizzazione che allontana i conflitti armati e ci rende tutti clienti felici di McDonald’s, ma ci ha anche avvisato che nel mondo di domani gli spazi per la nostra manifattura potrebbero restringersi. Le grandi sfide dell’Occidente come i programmi di riarmo, il ritorno delle produzioni, gli investimenti nelle materie prime e la riconfigurazione delle reti energetiche sono destinate a riscrivere le mappe della globalizzazione e a produrre effetti di riposizionamento dei Paesi industriali. Che ruolo potremo giocare? Pensiamo di poter continuare a pesare nel mondo solo grazie al soft power l egato al «bello e benfatto»? È evidente che no e che il futuro manifatturiero dell’Italia è ancora una volta legato alla quantità degli investimenti che sapremo mettere in campo, a un ulteriore incremento del valore aggiunto e al vantaggio competitivo che sapremo ricreare nella nostra meccanica di punta ma il tutto dovrà avvenire in pieno raccordo con l’Europa. E in particolare con i nostri partner privilegiati, Francia e Germania. E allora che senso ha alimentare un conflitto anacronistico con Parigi o pensare che quella ungherese possa essere un modello di società per noi e, infine, dimenticare che la Polonia in tutti questi anni con le sue zone speciali ci ha fatto concorrenza sleale dentro la Ue? Occorre realismo e insieme una visione di lungo termine. In ballo non ci sono solo i 360 miliardi di Pil frutto dell’industria ma lo stesso ranking dell’Italia nel mondo.

CORRIERE.IT

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