Lezioni da Kabul, un anno dopo

di Federico Rampini

Il mondo in cui viviamo è segnato dalle lezioni che tutti hanno voluto trarre un anno fa dalla ingloriosa e cruenta ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Le azioni di Vladimir Putin in Ucraina e di Xi Jinping a Taiwan sono state probabilmente influenzate da quella débacle americana. Per Russia e Cina il mondo nel dopo-Kabul è apparso ricco di opportunità. Anche le strategie di Washington negli ultimi dodici mesi vanno lette in quella luce. Le critiche interne agli Stati Uniti sull’abbandono dell’Afghanistan hanno avuto conseguenze. Chi si aspettava un disimpegno generale dell’America dai suoi compiti globali, oggi deve fare i conti con uno scenario geopolitico diverso.

Con ogni probabilità un anno fa Putin e Xi non interpretarono la fuga da Kabul come la fine di una guerra troppo lunga, troppo costosa, che distraeva la superpotenza Usa da missioni più importanti; al contrario videro la resa dell’Afghanistan ai talebani come una scelta dettata da debolezza. Ebbero la conferma della loro diagnosi sulla decadenza irreversibile dell’impero americano. Putin si sentì incoraggiato a proseguire il suo piano di aggressioni militari già ben avviato dal 2008. Xi accelerò i preparativi per l’invasione armata di Taiwan, di cui ha dato al mondo una terrificante prova generale nei giorni scorsi, usando la visita di Nancy Pelosi come alibi. (La dimensione del blocco navale, aereo e missilistico per strangolare Taiwan è stata tale da richiedere molti mesi di preparativi).

Negli Stati Uniti le lezioni tratte dal Ferragosto afgano del 2021 sono contraddittorie. C’è un lamento umanitario — «abbiamo abbandonato quel popolo, in particolare le donne, alla mercé degli abusi dei talebani» — che ha spazio nei media ma meno nell’opinione pubblica e nella classe dirigente. Questo lamento è poco credibile perché viene spesso dai medesimi soggetti che ancora poco tempo prima denunciavano la presenza militare americana in Afghanistan come un atto di prepotenza. I casi in cui l’America è riuscita a esportare con successo democrazia e diritti umani risalgono al dopoguerra giapponese, tedesco, italiano, e riguardano nazioni che avevano avuto qualche tradizione democratica. Se l’intervento militare in Afghanistan all’origine ebbe la missione di colpire il terrorismo di Al Qaeda, Joe Biden ha dimostrato meno di un mese fa che quella missione specifica può continuare a costi ridotti con i droni, senza scarponi sul terreno. L’America rimane il massimo donatore umanitario all’Afghanistan, ma è stata vaccinata dall’illusione di poter emancipare le donne afghane, se quel popolo riporta i talebani al potere ogni volta che gli stranieri se ne vanno.

L’aggressione di Putin all’Ucraina ha ottenuto negli Usa il risultato opposto agli interessi strategici proclamati dal leader russo. Biden è stato costretto a tornare ad occuparsi dell’Europa, pur dopo tante esitazioni iniziali (l’offerta di evacuare Zelensky in Polonia, il rifiuto di inviare scarponi sul terreno, l’esclusione di una no-fly zone). Gli europei, incapaci di difendersi da soli, hanno confermato la teoria secondo cui l’egemonia americana è un «impero su invito»: perché non di rado sono altri Paesi, attratti dal patrimonio comune di valori, a desiderare che l’America riempia un vuoto di leadership e di protezione. La Nato che nell’ultimo ventennio era passata da un’alleanza militare a un’alleanza per la smilitarizzazione, oggi registra la prima inversione di tendenza con l’ingresso di Svezia e Finlandia.

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