La Cina triplica le forze speciali per uno sbarco «a sorpresa». Mentre Taiwan opta per la «strategia del porcospino»

di Guido Santevecchi

In caso di invasione da parte di Pechino, Taiwan pensa a chiudersi a riccio in attesa di aiuti

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Vengono i brividi a leggere i rapporti degli istituti di ricerca sui numeri della potenza militare cinese paragonati con quelli taiwanesi. L’Esercito popolare di liberazione schiera oltre un milione di soldati di terra, contro i 100 mila effettivi che difendono l’isola. E 412 mila fanti cinesi hanno le loro basi di fronte allo Stretto.

Ma non è solo questo gigantismo che preoccupa gli strateghi occidentali. Dopo aver privilegiato per decenni le grandi unità terrestri per la difesa dei confini con Russia e India, la nuova dottrina cinese di recente ha triplicato la sua forza d’élite capace di uno sbarco a sorpresa, che oggi può contare su 35 mila uomini addestrati come i marines americani. Sono brigate dotate di mezzi rapidi e versatili tipo hovercraft, coperti da forze aeree e artiglieria eliportata. Le isole artificiali costruite nel Mar cinese meridionale sono state fortificate e infliggerebbero perdite gravi alla US Navy venuta in soccorso dei taiwanesi; Pechino vanta lo sviluppo di un missile Dongfeng DF-17 ipersonico detto «aircraft carrier killer» per la sua presunta capacità di perforare le difese delle portaerei che per decenni hanno dato la superiorità alla flotta americana nel Pacifico: l’ultimo lancio è stato trasmesso domenica dalla tv cinese.

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Superiorità schiacciante anche in mare: 133 navi da battaglia cinesi contro 26 taiwanesi; 52 sottomarini contro 2; 86 pattugliatori lanciamissili contro 44. In cielo, l’aeronautica cinese può lanciare 1950 aerei tra caccia e bombardieri contro 478.

Ma prima di immaginare un T-Day, un giorno dello sbarco cinese a Taiwan simile a quello degli anglo-americani in Normandia, bisogna fare calcoli sui costi militari e politici. Gli analisti pensano che in realtà i generali di Pechino non abbiano in mente un’invasione in grande stile dalla costa. Le spiagge utilizzabili (come la mitica Omaha Beach del 6 giugno 1944) sono solo una dozzina e quindi facilmente presidiabili. La costa taiwanese è cinta da scogliere alte tra i 300 e i 600 metri: «La conformazione dell’isola è un dono divino per i difensori», osserva Ian Easton, ex analista del Pentagono.

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Come comincerebbe allora un’operazione cinese per prendere il controllo della «provincia ribelle»? Il primo segnale sarebbe con ogni probabilità il buio a Taipei: le luci si spegnerebbero per cyberattacchi alla rete elettrica e ai centri di comando e controllo. Poi sarebbe la volta di incursioni di truppe eliportate per seminare il panico, di bombardamenti e lanci di missili sulle basi taiwanesi. La tv cinese l’anno scorso (quando la «provocazione» di Nancy Pelosi non era neanche immaginata) ha trasmesso il filmato di un missile da crociera che distruggeva un palazzo. Si tratta di un CJ-10, ordigno capace di portare sul bersaglio una testata esplosiva da 500 chili. «È stato un esperimento di decapitazione, un monito ai separatisti di Taiwan», disse Pechino sottolineando che il CJ-10 può essere programmato per infilarsi con precisione nella finestra di un edificio nel raggio di duemila chilometri. Taiwan ne dista meno di 200 dalla costa continentale.

Dice il direttore della Cia che Xi Jinping è stato «turbato» dallo sviluppo sul campo della guerra in Ucraina. William Burns è convinto che il presidente cinese stia facendo nuovi calcoli per Taiwan. La Cia non crede che la resistenza ucraina contro il presunto strapotere russo abbia spento la determinazione di Pechino a «riunificare» Taiwan , immagina solo che tempi e modi dell’azione stiano subendo una revisione alla luce della «lezione ucraina».

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