Lezioni americane sulle democrazie, nessuna libertà è data per sempre


MASSIMO GIANNINI

No, non è stata «la mano di Dio». Solo Donald Trump, nel suo permanente delirio iconoclasta, poteva evocare l’intervento divino per giustificare la sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti ha privato le donne di una delle conquiste più importanti dell’ultimo secolo. Come cantava il poeta De Andrè, Nostro Signore «ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi». Vale anche nel Paese che scrisse la sua Costituzione come un testo spirituale, ricalcato dalla Bibbia. Dunque il buon Dio non c’entra nulla. Cancellare cinquant’anni di giurisprudenza consolidata, eliminando il diritto all’aborto come principio generale e fondamentale dell’ordinamento, è stata una scelta degli uomini. Uomini che odiano le donne, purtroppo. E che hanno deciso di riportare indietro le lancette della civiltà e della storia. Certo, la decisione è intrisa di implicazioni religiose, delle quali si nutre non da oggi la predicazione dei “teo-con” americani. Ma è soprattutto densa di conseguenze politiche, di cui in queste ore già vediamo la traiettoria. Dopo l’aborto, toccherà alle unioni di fatto e ai matrimoni gay. Poi alla disciplina degli anti-concezionali e poi chissà a cos’altro. Un’inquietante escalation oscurantista, che mescola intolleranza e discriminazione. E che si consuma nella culla dei diritti civili, oggi avviata a diventarne la tomba.

Lo strappo è ancora più doloroso, proprio per tutto quello che l’America ha sempre rappresentato per noi europei e occidentali. Una terra di frontiera e di sfida, dove ogni conquista è stata ed è parsa possibile. Metro dopo metro, giorno dopo giorno, diritto dopo diritto.

La patria di Thomas Jefferson e della Dichiarazione di indipendenza, dove «tutti gli uomini sono stati creati uguali» e dotati di «diritti inalienabili» come «la vita, la libertà e la ricerca della felicità». Oggi tutto sembra dissolto, in questa lenta e penosa agonia del secolo americano, dove molti Stati praticano ancora la pena di morte, sciamani impellicciati invadono Capitol Hill, primatisti bianchi sparano nei licei, e il diritto a possedere armi automatiche vale più del diritto a interrompere una gravidanza pericolosa.

Eppure, c’è ben poco da stupirsi. È tutto scritto in quella che Philip Roth, ne La controvita, chiamava «l’agenda ideologica della nazione». Una nazione spaccata e avvelenata da una contrapposizione irriducibile. Politica: i repubblicani contro i democratici. Etica: i cristiani contro i laici. Geografica: gli Stati centrali della Bible Belt contro quelli della West e della East Coast. Un coacervo di conflitti morali e materiali. In un colloquio con un amico, l’io narrante del più grande scrittore americano, Nathan Zuckerman, dice «qui tutto è bianco e nero, tutti gridano e tutti hanno sempre ragione. Qui gli estremi sono troppo grandi per un Paese così piccolo…». Roth parla di Israele, ma il concetto è ancora più vero, per un Paese grande come gli Stati Uniti. I nove giudici della Corte Suprema non hanno fatto altro che trascrivere su carta i sentimenti e i risentimenti che scorrono nelle vene dell’America. Un’America sempre più polarizzata, impaurita e divisa. Pervasa da una “culture war” che, in ogni campo, influenza e intossica il discorso pubblico.

C’è una specificità nazionale, nella Grande Restaurazione avviata dalla Corte Suprema. Come insegnano i costituzionalisti, questa pronuncia è «over ruling»: facendo piazza pulita della giurisprudenza precedente, non abolisce il diritto all’aborto ma lo affida alla legislazione dei 51 stati federali, che sul tema possono decidere autonomamente, senza più avere sopra di sé la copertura giuridica dei principi generali previsti dalla vecchia sentenza Roe vs Wade. Si instaura un’epoca di “fai da te” legislativo, che produrrà anarchia normativa e ingiustizia sociale. I 25 stati repubblicani si adegueranno, cancellando il diritto all’interruzione di gravidanza e le strutture socio-sanitarie che lo gestivano. Gli altri stati, a guida democratica, resisteranno. Risultato: se abortisci in Mississippi vai in galera, se lo fai in California hai l’ospedale. In generale, le donne e le famiglie più ricche se la caveranno, quelle più povere sono condannate alla solitudine, al dolore, alla vergogna.

Così la faglia ideologica che attraversa il Paese diventerà ancora più radicale e profonda. È la versione moderna della secessione: la nuova guerra civile americana. Con un pericolo in più: l’ulteriore delegittimazione delle istituzioni. La Presidenza e il Congresso sono già logori, dopo il trauma subito nella stagione trumpiana culminata con il tentato golpe del gennaio 2021. Ora anche la Corte Suprema patisce un vulnus, politicizzata com’è dalle nomine degli ultimi anni. Questa decisione sull’aborto riscrive la storia dei rapporti tra potere giudiziario e potere legislativo. Finora, come ha ricordato Concita De Gregorio, la Corte Suprema ha vissuto dell’impronta lasciata per decenni dalla giudice progressista Ruth Bader Ginsburg, teorica della “Constitution living”, la Costituzione vivente, secondo la quale la Corte è parte della forma di governo e accompagna con le sue scelte l’evoluzione dei costumi sociali. Il principio usato stavolta dal presidente della Corte Samuel Alito, all’opposto, è quello dell’originalismo: il 14esimo emendamento della Costituzione del 1791, scritto nel 1868, non prevede il diritto all’aborto.

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