M5s, il senso di una fine

Potrebbe trattarsi solo di uno sfasamento temporale. In fin dei conti questi due partiti avevano da noi già toccato l’apice del loro successo, e avevano già fallito la prova del governo giallo-verde, finito male per tutti tranne che per Conte. Ciò nonostante, questo fenomeno ci dice qualcosa sulla crisi che stanno attraversando le democrazie europee, e in cui apertamente spera il loro più formidabile nemico: Vladimir Putin. È stato infatti lui, ancora qualche giorno fa, a profetizzare «un’ondata di radicalismo», capace di portare a un «cambiamento delle élite» in Europa.

La vicenda francese ci conferma che movimenti e partiti radicali sanno indubbiamente meglio delle forze politiche moderate come conquistare fette di elettorato sempre più in preda al rancore, al distacco, a un sentimento di ingiustizia. Ma poi — e qui è il caso italiano a dimostrarcelo — non riescono a rappresentarli. A realizzare ciò che avevano promesso. E non per mancanza di volontà, o per una tendenza genetica al «tradimento» di chiunque vada al potere. Ma perché non possono. Neanche Mélenchon, se fosse davvero arrivato al governo, avrebbe potuto abbassare l’età della pensione a 60 anni in un paese dove si vive in media fino a 83. Neanche Di Maio, che al governo c’è stato davvero, poteva eliminare la povertà con il reddito di cittadinanza. Neanche Salvini poteva uscire dall’euro. Neanche Conte poteva, con una risoluzione parlamentare, sospendere unilateralmente l’aiuto militare all’Ucraina aggredita. O almeno: tutte queste cose non si possono fare restando in Europa, nel G7 e nella Nato, cioè restando l’Italia.

Qualcuno potrebbe dire: questa «impossibilità», l’esistenza di vincoli economici e geopolitici, è la nostra assicurazione contro i rischi dell’estremismo. Ma non credo che ci si possa fregare le mani soddisfatti. Perché la rabbia che non trova risposte nel processo elettorale è alla lunga un veleno che corrode dall’interno le democrazie rappresentative, determinando quote sempre crescenti di estraneità nell’opinione pubblica.

Non può bastare «sterilizzare» il nuovo radicalismo, sperando di metterlo in un limbo parlamentare dove non possa far danni. Altrimenti spunterà sempre un nuovo leader a raccoglierne la bandiera caduta. Le democrazie occidentali hanno piuttosto bisogno di prosciugare lo stagno in cui nuota. E questo è un compito che spetta alle forze non populiste. Non possono più limitarsi a una generica offerta di «buongoverno», contrapposta ai pasticci e ai guai che combinerebbero gli altri se lasciati liberi di fare. O magari allearsi con loro nella speranza di rabbonirli e di sommarne i voti, come in fin dei conti hanno finora fatto i moderati del centrosinistra e del centrodestra in Italia. Hanno invece il dovere di unirsi intorno a leadership capaci di riconoscere e rispondere alla rabbia degli elettori. Solo una politica democratica a sua volta radicale, nelle idee e nelle proposte, può sconfiggere l’ondata del radicalismo che Putin auspica, sollecita e provoca.

CORRIERE.IT

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