La crisi dei 5Stelle e le scelte del Pd

di Stefano Folli

Più i 5S di Conte si spingono avanti nel criticare la politica governativa verso l’Ucraina, più la marcia indietro dell’ultimo minuto sarà per loro dolorosa. Ci sarebbe una via d’uscita, naturalmente: non fermarsi, andare avanti fino a mettere in crisi Draghi, costi quel che costi. Ma ovviamente non è credibile. Che un partito uscito malconcio dalle elezioni amministrative e ormai a un passo dall’implosione abbia la voglia e la forza di provocare la caduta dell’esecutivo su un tema riguardante le alleanze internazionali dell’Italia, sembra a tutti inverosimile. C’è un limite al cinismo con cui si cerca di scaricare sul governo le infinite contraddizioni di un movimento frantumato e in buona misura privo di senso quattro anni dopo il trionfo elettorale del 2018.

  La marcia indietro è dunque l’unica opzione realistica, a meno che la situazione ai vertici del M5S non sia del tutto sfuggita di mano. Ma in tal caso a rimettere le cose a posto ci penserebbero i parlamentari “grillini”, timorosi delle elezioni anticipate e consapevoli che quasi nessuno di loro tornerà in Parlamento. S’intende che il presidente del Consiglio farà il possibile, sul piano delle rassicurazioni verbali, per rendere la retromarcia meno mortificante. Dirà dell’impegno italiano per la pace e non a caso le comunicazioni alle Camere arrivano dopo il viaggio a Kiev e le altre iniziative che hanno visto Palazzo Chigi e la Farnesina molto attivi nelle ultime settimane. Se Conte e i suoi si accontentano – come tempo fa si erano accontentati di piccoli ritocchi al programma di aumento delle spese militari fino al 2 per cento del Pil -, l’ennesima finta crisi potrà essere archiviata.

  Resta il punto politico. La frattura tra i 5S è profonda e insanabile. Un movimento senza autentiche radici e senza una rotta si sta sbriciolando come effetto di una contesa personale rivestita di rispettabili principi. Ovvio che un eventuale appoggio esterno non risolverebbe le angosce che segnano il tramonto del partito, mentre al tempo stesso provocherebbe l’instabilità del governo: i 5S sono pur sempre il gruppo di maggioranza relativa e Di Maio agli Esteri non è sostituibile, a meno di non voler provocare uno smottamento dei fragili assetti nella coalizione. Ne deriva che il Pd, che si considera non a torto l’asse del sistema e il primo sostenitore di Draghi, oggi ha una doppia responsabilità. La prima è dissuadere Conte dal disimpegnarsi dal governo: e questo è senz’altro il compito più facile per le ragioni appena dette. 

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