La Bce e lo scudo delle illusioni

di Tito Boeri e Roberto Perotti

In questi giorni i mercati si sono dimostrati per un verso troppo ottimisti sul debito pubblico italiano, per un altro troppo pessimisti. Sull’eccesso di ottimismo: lo spread tra i titoli del debito pubblico italiano e quelli del debito tedesco è fortemente aumentato fino all’annuncio, mercoledì scorso, di uno scudo anti-spread allo studio presso la Bce; da allora è calato del 20 per cento. Non siamo sicuri che sia una reazione giustificata.


In cosa consisterebbe questo scudo? Il programma anti-pandemia della Bce ha in pancia 1,65 trilioni di titoli di stato acquistati negli ultimi due anni: 280 miliardi sono italiani, o il 17 per cento, esattamente pari alla quota della Banca d’Italia nell’Eurosistema. Il programma è terminato: la Bce si limiterà a reinvestire i titoli in scadenza. L’idea dello scudo anti-spread sembrerebbe consentire alla Bce di reinvestire in titoli italiani più del 17 per cento di tutti i titoli che scadono ogni anno in questo programma.

Non si sa esattamente quanti titoli scadranno ogni anno. E bisogna aggiungere i reinvestimenti dei titoli in scadenza del programma di acquisti “regolare” della Bce, iniziato nel 2014 e che finirà anch’esso tra poco. I calcoli sono un po’ complicati, ma sulla base dei pochissimi dati disponibili abbiamo stimato che se la Bce reinvestisse in titoli di stato italiani il 17 per cento dei titoli in scadenza nei due programmi, comprerebbe circa 70 miliardi di titoli italiani. Se invece con lo scudo antispread la Bce raddoppiasse (una ipotesi forte) la quota di titoli italiani che reinveste nel programma anti-pandemia, comprerebbe in totale 100 miliardi di titoli italiani.

Difficile che faccia la differenza nel caso di panico dei mercati (che al momento non è alle viste). Ricordiamo che solo di titoli a medio e lungo termine l’anno venturo scadranno oltre 250 miliardi di debito pubblico italiano. Inoltre, per fare un confronto, nel 2011 e 2012 il Securities Market Programme della Bce comprò titoli dei paesi con problemi di debito pubblico. Raggiunse la stessa cifra, 100 miliardi di titoli italiani, quando il nostro debito pubblico era ben inferiore a quello attuale; ma questo non bastò a prevenire la forte crisi di allora.


Il secondo motivo per cui le prime reazioni dei mercati potrebbero essere troppo ottimistiche è che quasi tutti i paesi, eccetto quelli del sud Europa, sono contrari a uno scudo anti-spread che sia al tempo stesso di dimensioni utili a evitare una crisi e “incondizionato”.


La Bce sta tentando di quadrare il cerchio, ma sarà una impresa difficile. I paesi nordeuropei acconsentirebbero, seppur con riluttanza, a un piano anti-spread serio solo se fosse accompagnato da condizioni stringenti imposte all’Italia. D’altra parte, nessun governo italiano, tantomeno un futuro governo a maggioranza più o meno sovranista, sarà disposto a firmare una lunga lista di condizioni con Bce e Commissione, come fece la Grecia. Il risultato più probabile, come abbiamo visto, è uno scudo anti-spread men che impenetrabile…


L’ironia è che uno scudo anti-spread, e potenzialmente illimitato, esiste già: l’Outright Monetary Transaction Programme, creato nel settembre 2012 dopo il famoso discorso di Draghi del “whatever it takes”. È l’unico programma davvero senza limiti agli acquisti. Ma richiede la firma di condizioni, tra le quali l’adesione al programma del Fondo Salva Stati (Mes).


Se i mercati sono eccessivamente ottimisti sullo scudo, sembrano commettere l’errore opposto sulla sostenibilità del debito. Dimenticano una grossa differenza con la crisi del 2011: l’inflazione. Allora non c’era, oggi c’è. Sia chiaro: tutti noi ne faremmo volentieri a meno, ma dato che c’è è importante tenere conto di tutti i suoi effetti. Un effetto è di ridurre il peso del debito pubblico sul Pil, e il costo del servizio del debito.


Anche qui i calcoli non sono immediati, ma intuitivamente, quando c’è inflazione e crescita positiva il denominatore del rapporto debito pubblico/Pil, il Pil cresce almeno al tasso di inflazione, e questo riduce il rapporto. Si dirà che se aumenta l’inflazione tipicamente aumenta anche il tasso di interesse che si paga sul debito, e questo si riflette in un maggiore accumulo del debito pubblico, il numeratore del rapporto. Vero, ma finora il tasso di interesse è aumentato molto meno dell’inflazione.

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