Russia-Ucraina, i 100 giorni di guerra che hanno cambiato il mondo

DOMENICO QUIRICO

Cento giorni: abbiamo vissuto prima del 24 febbraio sopra un vecchio fondo di illusioni e di leggende consolanti, l’Europa della pace, la legge delle armi relegata ai conflitti dei più poveri, fanatici e ignoranti, la luccicante concorrenza dei consumi delle nazioni… Esse hanno impregnato i nostri spiriti, ci hanno foggiati e hanno una grossa parte di responsabilità negli eventi crudeli che l’attacco di Putin all’Ucraina ha fatto svolgere davanti a noi. Quello che era prima è stato falciato dalle raffiche delle mitragliatrici e si è decomposto nei crateri dei missili. Non ha più corpo né credito se non in qualche fossile dell’ottimismo a ogni costo che pensa che, per miracolo, come è andato in pezzi un mattino il mondo possa tornare a quell’ordine, precario quanto precario ora lo sappiano!, che invece è definitivamente perduto.

Cento giorni ed è già difficile ricordare cosa facevamo quel 23 febbraio, il giorno prima. E dire che era appena da qualche settimana che tutto di nuovo pareva facile, la vita favorevole piena di imprese rischiose e riuscite! La pandemia si stava trasformando in ricordo, qualche obbligo residuo, le mascherine! Aveva ancora diritto a una polemica, si parlava, che bella parola, di ripartenza. E invece, di nuovo, è il tempo delle idee tetre.

Perfino il primo mese di guerra oggi ci appare come spaesato, impalpabile, non riusciamo a ritrovarne il ritmo. Era il tempo in cui i russi, illudendosi pare della guerra lampo, si erano ingolfati nella breccia verso Kiev. Gli eroici ucraini, incredibilmente, ci davano dentro, resistevano. Fu il tempo dei fotogrammi, ripetuti milioni di volte fino a dare una visione di perennità, dei carri armati impantanati nel terreno grasso d’Ucraina, delle colonne, di 60 chilometri! Che saltavano in aria sotto i colpi geniali, si diceva, dei droni fai da te. Donne e bambini nelle strade confezionavano inutili bottiglie molotov, non servivano militarmente a niente ma ci ricordavano che quando qualcuno è aggredito allora si diventa eroi: così, normalmente, con l’impegno che si mette a far bene il lavoro o a compilare il compito in classe.

È vero. Le città come Kiev sotto i colpi di missili che sembravano gettati a casaccio, con schianti di rovina, erano come ammassate in un angolo fosco della nostra attenzione: sciupate, tarlate, annerite dagli incendi. E alle frontiere si ammassava la migrazione delle donne e dei bambini, portandosi dietro la memoria degli ordigni che passavano col rumore di una urlata, con un soffio di aspirazione nello spazio, e avevano l’aria di sospetto e di incerto destino di tutti gli emigranti: piccoli, silenziosi, denti stretti e cappotti abbottonati. Il destino. Guardarli dava forza e gioia alla nostra pietà, l’accoglienza, parola sempre così aspra e piena di sottintesi, allora ci usciva di bocca svelta, sonora. Ecco l’Europa: incontri e sedimenti di civiltà, amicizie che rimontano i secoli, popoli affacciati su questa vecchia terra che spettegolano l’un l’altro. Ucraini venite! Siete nostri fratelli, noi siamo con le vittime. Quasi sempre. Eppure tra noi e loro, in fondo ai treni e agli autobus che l’avevano portati via, c’era una distanza enorme, un abisso, tutti i mille chilometri che erano stati percorsi e i giorni che sarebbero venuti. Loro erano stati là, noi no.

Avevamo forse scoperto il modo perfetto per essere in guerra e non esserci, sentirci eroici senza andare al di la del confine della Nato diventato di colpo la frontiera tra il bene e il male putiniano, dai contorni un po’ mongoli, un po’ staliniani. Era il tempo in cui mandavamo agli ucraini aiuti militari difensivi, solo per «resistere». E ci si affannava a precisare che quella era la guerra contro Putin e non contro i russi, anche loro vittime del dispotismo. Si descriveva l’ex spione con cui convivevamo benissimo da venti anni come un enigma che aveva una caverna al posto del cuore, da cui uscivano progetti crudeli, insondabili.

Zelensky, il presidente un po’ oligarca un po’ attore, spuntava sugli schermi, assertivo, implacabile, sembrava che ci guardasse negli occhi ricordandoci che dovevano essere eroi, ci ingiungeva di scendere in guerra per non essere le prossime vittime. Correvano brividi: ma noi non eravamo in guerra, aiutavamo semplicemente la pace. E qualcuno che non aveva mai visto un carro armato se non al cinema e credeva di sapere che cosa è la guerra ci tranquillizzava spiegando che un anticarro portatile è una arma difensiva, uccide ma non impegna.

Oggi, dopo appena cento giorni, siamo all’invio di missili e di obici che fanno vibrare lo spazio. Ma neanche questi basteranno tra qualche giorno e settimana. Perché è la guerra che detta le sue regole quando pianta gli artigli in un luogo e inizia a alzare, golosa, inesorabile, la posta.

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