Il Cremlino e la strategia del macigno così l’armata russa stritola gli ucraini

Domenico Quirico

È la guerra, quella primitiva, lineare, elementare, annientatrice, polverizzatrice, che paralizza il cervello, istupidisce, spezza la certezza fisica del penso e quindi sono. Invece non sei più, muori prima di morire. La novecentesca tempesta di acciaio, distruzione e morte allo stato puro. Non la guerra elegante, ingegnosa, high tech, fantasiosa, eroica, creativa, futurista con cui gli ucraini ci hanno illuso per novanta giorni. Questa è la guerra dei russi, non la guerra putiniana: dei russi, la loro guerra da sempre. E infatti la stanno vincendo.

È la guerra fatta con «il Garofano», «l’Acacia», «il Giacinto». Purtroppo non sono fiori o alberi ma il beffardo soprannome che i russi hanno dato ai loro cannoni semoventi, il loro dio della guerra: il Gvozdika da 122 millimetri di calibro, gli Akatsiya, i Giatsint-S da 152 millimetri. E poi i lanciarazzi multipli, i vecchi Grad degli Anni Sessanta da 122 millimetri, anticaglie per i buongustai della guerra alla moda, ma che uccidono, oh! come uccidono. Con a fianco quelli nuovi, gli Uragan da 220 millimetri e i mostruosi Smerch, turbine, da 300.

L’arte di vincere, da sempre, consiste nel trascinare con l’astuzia o con la forza l’avversario a combattere la tua guerra, quella per cui hai talento, sei più preparato nei mezzi e nelle tattiche o quella che si adatta al terreno che hai scelto. Settimana dopo settimana i russi, nel Donbass, hanno attirato gli ucraini nella loro guerra, quella in cui sono maestri, la guerra-macina. Bisogna immaginare quelle antiche, gigantesche macine di pietra che si vedono ancora nei vecchi mulini dell’Ottocento. Un enorme macigno ruota su un’altra lastra di ardesia e a poco a poco, chicco dopo chicco, il grano, l’avena, tutto viene ridotto in polvere.

Ecco: questa è la guerra russa che purtroppo sta polverizzando il Donbass. Il tambureggiare dell’artiglieria russa cresce come se in alto fluttuasse una tempesta che ammassa gigantesche onde sonore mandandole a infrangersi contro le cittadine, i villaggi, le linee ucraine. Quando non c’è vento l’aria immobile rende quella musica infernale ancora più spaventosa. Davanti agli uomini rannicchiati nelle cantine o curvi nelle trincee, che tremano e bestemmiano, le esplosioni lanciano in ogni direzione frammenti metallici, gli uomini e le cose, i muri, le strade, i pali della luce, i ponti, volano in aria, si disintegrano. I proiettili via via che il tiro si allunga volano gemendo e sibilando, assetati di sangue. L’uragano dei colpi aumenta, sembra che il nemico disponga di proiettili infiniti e poi il fragore dei lanciarazzi che varia di tanto in tanto soltanto perché sembra arrivare da direzioni opposte, sommerge ogni altro rumore.

Come la macina l’artiglieria tritura uomini, case, strade, campi, vite, sogni, speranze, illusioni, paure e viltà, lascia solo briciole, farina di vite e luoghi. La fanteria allora avanza guardinga, lei stessa resa incerta dalla totalità minuziosa di quella distruzione, calpesta ciò che era e non sarà più.

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