La batteria ad alga ci permetterà di ricaricare lo smartphone con la fotosintesi

di Dario D’Elia

Una batteria ad alghe sarebbe stata perfetta per un romanzo di Emilio Salgari, magari per alimentare un profondimetro o una lampada sottomarina. E invece alla University of Cambridge ne hanno sviluppata una per dare energia a un microprocessore Arm, con la prospettiva domani di fare lo stesso con un vero e proprio sensore internet-of-things. Sì, uno di quei piccoli dispositivi che in un appartamento consentono di controllare una tapparella, oppure comunicare all’aspirapolvere che siamo usciti e può iniziare le pulizie.

“Si chiama Synechocystis e oggi è classificato come un cianobatterio, ma fino a 20-30 anni fa era chiamata alga blu-verde, data la sua pigmentazione; biologicamente è simile a una pianta”, ci spiega Paolo Bombelli, uno dei ricercatori del team del Dipartimento di Biochimica dell’ateneo che ha seguito il progetto. “Ne abbiamo sfruttato le proprietà di fotosintesi per creare un piccolo sistema elettrochimico che, alimentato con la luce, produce corrente elettrica”.
 

Arm Research, che ha sede proprio a Cambridge, ha sviluppato il chip di test, costruito la scheda correlata e impostato l’interfaccia cloud di raccolta dati per gli esperimenti. Tutti i dettagli sono stati esplicitati nello studio Powering a microprocessor by photosyntesis recentemente pubblicato, dopo la consueta revisione, sulla rivista scientifica Energy&Environmental Science

Come funziona la bio batteria

Una batteria ad alga come quella realizzata dal team di Cambridge è una potenziale risposta al problema dell’alimentazione dei dispositivi internet-of-things. Saranno più di un trilione nel mondo entro il 2035, secondo il noto produttore inglese di chip Arm. E di certo l’alimentazione non potrà essere gestita tramite miliardi di piccole batterie agli ioni di litio – un materiale sempre più richiesto anche a causa del boom delle auto elettriche e ibride.

Ecco spiegato il senso di un dispositivo fotosintetico, a ridotto impatto ambientale, capace di sfruttare costantemente la luce naturale oppure quella artificiale come fonte energetica. “Nello studio abbiamo confermato che la batteria ha funzionato sei mesi, ma in verità siamo riusciti ad alimentare il chip Arm Cortex M0+ per più di un anno e probabilmente avremmo potuto proseguire se non avessimo dovuto restituire il processore”, sottolinea Bombelli.

Nello specifico, la corrente generata doveva consentire al chip di eseguire un solo comando: ovvero confermare l’esecuzione di una semplice operazione aritmetica e in caso contrario – quindi mancanza di corrente – generare una notifica di errore. Il contatore ha raggiunto i 125 miliardi di operazioni in sei mesi e di fatto non si è mai fermato. La corrente prodotta variava durante l’intera giornata, ma ovviamente il picco veniva raggiunto nelle ore diurne. Durante le ore notturne comunque veniva assicurata una soglia minima grazie all’energia chimica accumulata in precedenza.

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