La sconfitta di Conte

FEDERICO CAPURSO

 Entrando nella sede romana del Movimento 5 stelle, a pomeriggio inoltrato, si sentono delle urla provenire dall’ultima stanza in fondo al corridoio, quella di Giuseppe Conte. Non si è ancora placata l’ira del leader, esplosa al mattino per essersi visto soffiare la presidenza della commissione Esteri in Senato che fu dell’ex grillino Vito Petrocelli. «Spettava a noi di diritto», sottolinea al termine della riunione della segreteria pentastellata convocata d’urgenza. E invece il blitz del centrodestra, con l’appoggio di Italia viva e di parte del gruppo Misto, ha portato all’incoronazione di Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia, con 12 voti contro i 9 del candidato M5S, Ettore Licheri. Conte, parlando con la Stampa, la definisce «un’operazione di basso conio», un «tradimento dei patti», una «azione minatoria per il governo». Ma non la chiama mai per quello che è davvero: una sconfitta.

Lo schiaffo ricevuto in Commissione Esteri «certifica che questa maggioranza esiste solo sulla carta. Registriamo che se ne è formata una nuova, da Fratelli d’Italia a Italia viva», sostiene l’ex premier, e la maggioranza rischia così «di perdere il senso di minima coesione e di leale collaborazione che sono premesse fondamentali per sostenere l’azione di governo». Ma lo spettro di una crisi imminente viene allontanato: «Noi continueremo ad appoggiare lealmente l’esecutivo», chiarisce.

Semmai, per Conte, «questa è la riprova che ci sono delle forze che stanno tramando per spingerci fuori dal governo, ma sbaglia chi pensa che da parte nostra ci sarà una reazione di frustrazione». Serve però ritrovare un dialogo, «di cui deve farsi carico il presidente del Consiglio». Tira quindi in ballo Mario Draghi, con cui però i rapporti sono ormai gelidi. Tanto che un faccia a faccia per discutere del problema viene rimandato ad un futuro non meglio precisato. D’altronde, confessa Conte, «l’ultima volta che l’ho incontrato non è stata un’occasione felice. Io ponevo un problema sul riarmo, insostenibile per il Paese, e mi sono ritrovato con un presidente del Consiglio che andava al Quirinale e denunciava platealmente che il Movimento voleva una crisi di governo».

Segno di un rapporto logoro. Anche se, sull’incidente in commissione Esteri, «non sto coinvolgendo Draghi in alcun modo», ma si aspettava un altro comportamento. Che richiamasse Matteo Salvini, con cui si era incontrato recentemente, e magari gli chiedesse conto del perché ha ritenuto di creare, con una forza di opposizione come Fdi, «una conventio ad escludendum del Movimento 5 stelle».

A questo punto è inutile, per Conte, anche un vertice di maggioranza con gli altri leader: «Io caminetti non ne voglio fare», dice. Semmai, «voglio confrontarmi in Parlamento», con un voto, quando Draghi riferirà alle Camere prima del Consiglio europeo straordinario di fine mese. E va chiarito, in tempi più brevi, «se si pensa di acquisire Fratelli d’Italia all’interno della maggioranza o se Italia viva, visto il consenso molto basso da cui non riesce a schiodarsi, ha deciso di essere organica al centrodestra».

L’attacco innesca uno scambio di tweet al vetriolo con Giorgia Meloni, che smentisce ogni desiderio di lasciare l’opposizione: «È successa una cosa scontata, abbiamo appoggiato una candidata di centrodestra». Per la Lega, infatti, è la conferma che «uniti si vince». Unito è stato anche il fronte progressista – «Non posso rimproverare nulla a Pd e Leu», dice Conte – che in occasione del voto aveva contrassegnato le schede per riconoscere i voti e «tornavano tutti», confermano Dem e Cinque stelle. Eppure non è bastato.

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