Intervista a Papa Francesco: «Putin non si ferma, voglio incontrarlo a Mosca. Ora non vado a Kiev»


E ora chi ha a cuore la pace si trova di fronte la grande questione della fornitura di armi, da parte delle nazioni occidentali, alla resistenza ucraina. Una questione che non trova tutti d’accordo, che spacca il mondo cattolico e quello pacifista. Il Pontefice si mostra dubbioso, la sua dottrina ha avuto sempre al centro il rifiuto della corsa agli armamenti, il no all’escalation nella produzione di armi che prima o poi qualcuno decide di mettere alla prova sul campo, provocando morte e sofferenza. «Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini — ragiona — .La cosa chiara è che in quella terra si stanno provando le armi. I russi adesso sanno che i carri armati servono a poco e stanno pensando ad altre cose. Le guerre si fanno per questo: per provare le armi che abbiamo prodotto. Così avvenne nella guerra civile spagnola prima del secondo conflitto mondiale. Il commercio degli armamenti è uno scandalo, pochi lo contrastano. Due o tre anni fa a Genova è arrivata una nave carica di armi che dovevano essere trasferite su un grande cargo per trasportarle nello Yemen. I lavoratori del porto non hanno voluto farlo. Hanno detto: pensiamo ai bambini dello Yemen. È una cosa piccola, ma un bel gesto. Ce ne dovrebbero essere tanti così».

Le parole di Francesco, nella conversazione, tornano sempre a ciò che è più giusto fare. Molti gli hanno chiesto il gesto simbolico di una visita in Ucraina. Ma la risposta è netta: «A Kiev per ora non vado — spiega —. Ho inviato il cardinale Michael Czerny, (prefetto del Dicastero per la Promozione dello Sviluppo umano integrale) e il cardinale Konrad Krajewski, (elemosiniere del Papa) che si è recato lì per la quarta volta. Ma io sento che non devo andare. Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin. Ma anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso. Se Putin aprisse la porta…».

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Il direttore del Corriere Luciano Fontana, la vicedirettrice Fiorenza Sarzanini e Papa Francesco durante il colloquio




La Chiesa ortodossa
Può essere il patriarca Kirill, capo della Chiesa ortodossa russa, l’uomo in grado di convincere il leader del Cremlino ad aprire uno spiraglio? Il Pontefice scuote la testa e racconta: «Ho parlato con Kirill 40 minuti via zoom. I primi venti con una carta in mano mi ha letto tutte le giustificazioni alla guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: di questo non capisco nulla. Fratello, noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il Patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin. Io avevo un incontro fissato con lui a Gerusalemme il 14 giugno. Sarebbe stato il nostro secondo faccia a faccia, niente a che vedere con la guerra. Ma adesso anche lui è d’accordo: fermiamoci, potrebbe essere un segnale ambiguo».


La Via Crucis
L’allarme di una guerra mondiale a pezzettini che papa Bergoglio aveva fatto negli anni passati sta, dunque, diventando qualcosa che deve scuotere le coscienze di tutti. Perché, per il Pontefice, siamo anche oltre i pezzettini, siamo in una realtà che può portare davvero a una guerra mondiale.

«Il mio allarme non è stato un merito, ma solo la constatazione della realtà: la Siria, lo Yemen, l’Iraq, in Africa una guerra dietro l’altra. Ci sono in ogni pezzettino interessi internazionali. Non si può pensare che uno Stato libero possa fare la guerra a un altro Stato libero. In Ucraina sono stati gli altri a creare il conflitto. L’unica cosa che si imputa agli ucraini è che avevano reagito nel Donbass, ma parliamo di dieci anni fa. Quell’argomento è vecchio. Certo loro sono un popolo fiero. Per esempio quando per la Via Crucis c’erano le due donne, una russa e l’altra ucraina, che dovevano leggere insieme la preghiera, loro ne hanno fatto uno scandalo. Allora ho chiamato Krajewski che era lì e mi ha detto: si fermi, non legga la preghiera. Loro hanno ragione, anche se noi non riusciamo pienamente a capire. Così sono rimaste in silenzio. Hanno una suscettibilità, si sentono sconfitti o schiavi perché nella Seconda guerra mondiale hanno pagato tanto tanto. Tanti uomini morti, è un popolo martire. Ma stiamo attenti anche a quello che può accadere adesso nella Transnistria».


L’attesa del 9 maggio
La conversazione sulla guerra volge al termine e la sintesi sembra pessimista: «Per la pace non c’è abbastanza volontà — è l’amara constatazione di Francesco — la guerra è terribile e dobbiamo gridarlo. Per questo ho voluto pubblicare con Solferino un libro che ha come sottotitolo Il coraggio di costruire la pace.

Orbán, quando l’ho incontrato mi ha detto che i russi hanno un piano, che il 9 maggio finirà tutto. Spero che sia così, così si capirebbe anche la celerità dell’escalation di questi giorni. Perché adesso non è solo il Donbass, è la Crimea, è Odessa, è togliere all’Ucraina il porto del Mar Nero, è tutto. Io sono pessimista, ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi».


La politica di Roma
Lo sguardo è rivolto anche alle azioni che può mettere in campo il nostro Paese. «L’Italia sta facendo un buon lavoro — afferma il Pontefice — . Il rapporto con Mario Draghi è buono, è molto buono. Già in passato, quando era alla Banca centrale europea, gli ho chiesto consiglio. È una persona diretta e semplice. Ho ammirato Giorgio Napolitano, che è un grande, e ora ammiro moltissimo Sergio Mattarella. Rispetto tanto Emma Bonino: non condivido le sue idee ma conosce l’Africa meglio di tutti. Di fronte a questa donna dico, chapeau».

Della politica, e dei politici italiani, non vuole parlare più di tanto. Raccomanda a tutti serietà e capacità di gestire i successi del momento che spesso diventano effimeri. C’è ancora tempo, nella chiusura del colloquio, per un bilancio sul cambiamento della Chiesa, la sfida a cui ha dedicato e dedicherà il massimo impegno.

«Spesso ho trovato una mentalità preconciliare che si travestiva da conciliare. In continenti come l’America latina e l’Africa è stato più facile. In Italia forse è più difficile. Ma ci sono bravi preti, bravi parroci, brave suore, bravi laici. Per esempio una delle cose che tento di fare per rinnovare la Chiesa italiana è non cambiare troppo i vescovi. Il cardinale Gantin diceva che il vescovo è lo sposo della Chiesa, ogni vescovo è lo sposo della Chiesa per tutta la vita. Quando c’è l’abitudine, è bene. Per questo cerco di nominare i preti, come è accaduto a Genova, a Torino, in Calabria. Credo che questo sia il rinnovamento della Chiesa italiana. Adesso la prossima assemblea dovrà scegliere il nuovo presidente della Cei, io cerco di trovarne uno che voglia fare un bel cambiamento. Preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole. E che abbia la possibilità di scegliere il segretario, che possa dire: voglio lavorare con questa persona».

L’ultimo pensiero è per il cardinal Martini di cui il Papa ha riletto un articolo «perfetto», dopo l’11 settembre, sul terrorismo e sulla guerra. «È talmente attuale che ho chiesto di ripubblicarlo sull’Osservatore romano. Continuate sui giornali a indagare la realtà, a raccontarla. È un servizio al Paese di cui vi ringrazierò sempre».

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