Concorsi e università, perché non viene premiato il merito

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Ogni tanto salta fuori un concorso truccato e, allora, si grida allo scandalo. Ma non c’è nemmeno bisogno di truccare le carte, vista la consuetudine a mettersi d’accordo sul finto rispetto delle procedure. Parliamo dell’università, il luogo che sforna i futuri professionisti e la futura classe dirigente e dove a fare la differenza è la qualità del corpo docente. Ebbene, le falle aperte nei meccanismi di reclutamento dei professori universitari vanno avanti da più di quarant’anni. Dal 1980 le norme sono cambiate quattro volte senza aver mai intaccato il cuore del problema: più attenzione alla cordata di appartenenza del candidato che alla sua preparazione. E questo disprezzo per il merito condanna il nostro Paese a essere fuori dalla top 100 delle migliori università mondiali. Nonostante la prima università europea sia proprio nata in Italia.

E questo disprezzo per il merito condanna il nostro Paese a essere fuori dalla top 100 delle migliori università mondiali

I ruoli

La carriera dentro i 97 atenei italiani inizia con il dottorato e l’assegno di ricerca, poi segue il titolo da ricercatore. Quindi si diventa associati (II fascia) e infine ordinari (I fascia). In totale, i professori sono 37.996. Il loro impegno tra lezioni, esercitazioni, laboratori e seminari, è di un minimo di 120 ore all’anno. Lo stipendio parte da 2.400 euro netti al mese per gli associati, e da 3.300 euro per gli ordinari.

Dal concorso nazionale a quello locale

La stima è che, di quelli in carica oggi, poco più di 29 mila siano stati selezionati con le vecchie norme. La prima grande riforma è il Dpr 382 del 1980 firmato dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini: nasce la distinzione tra la figura dell’associato da quella dell’ordinario, entrambi selezionati attraverso un concorso nazionale. Prendiamo Economia, la commissione che valuta chi vuole diventare associato è scelta così: sorteggiati ventisette professori della stessa disciplina e poi tutti i professori di Economia d’Italia ne eleggono nove. Quella che, invece, valuta gli ordinari è formata al contrario: prima vengono eletti gli aspiranti commissari e poi vengono sorteggiati cinque tra i più votati. Una volta stilata la lista dei vincitori, le facoltà che hanno bandito il posto deliberano la chiamata, anche in base alle preferenze indicate dall’aspirante professore. Ma il meccanismo viene considerato troppo rigido, perché non garantisce agli atenei la possibilità di scegliere il candidato con il profilo più adatto alle proprie esigenze, che può non coincidere con il migliore candidato in termini assoluti. Nel 1998 la legge 210 del governo Prodi, ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, decreta la fine dei concorsi nazionali. Ogni università si fa il suo. I commissari sono cinque, uno interno indicato dalla facoltà e quattro esterni eletti dai loro colleghi. Risultato: su cento aspiranti, gli interni che partecipano alla selezione sono ventiquattro e vincono il posto in un caso su due. Il rischio, che i numeri fotografano senza via di scampo, è che sia dato un eccessivo vantaggio a chi è già dentro la facoltà che bandisce il concorso, con un esito già predeterminato a favore del candidato interno, indipendentemente dalle sue qualità. Le commissioni sono disponibili ad accogliere le preferenze dell’ateneo – che è rappresentato dal commissario interno – e meno attente alla qualità oggettiva dei candidati. Il principio è che oggi tu accontenti me, e io domani accontenterò te.

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