I tanti no per Draghi al Colle, così la corsa del premier verso il Quirinale s’è frenata

Ilario Lombardo

La domanda da farsi, a ormai dieci giorni dall’apertura dei giochi sul Quirinale, è: perché nessuno si sta intestando apertamente la candidatura di Mario Draghi? Capovolgendo il quesito: perché tutti (o quasi, come vedremo) sembrano non volerlo là dove il diretto interessato ha fatto chiaramente capire di volersi trasferire?

Alla vigilia della votazione più enigmatica di sempre il caso Draghi resta un paradosso: è il principale candidato per il Colle ma nell’esercito dei grandi elettori che dovrebbero decretarne l’investitura non sembra avere il consenso necessario. È una fotografia temporanea, che consegna il clima di attesa e di strazio che regna in queste ore. La premessa, infatti, è d’obbligo: da qui a una settimana le condizioni politiche potrebbero cambiare e improvvisamente offrire una discesa inattesa agli eventi. Chi conosce la liturgia del Quirinale sa che tutto si decide all’ultimo, a elezioni già aperte. Ma per il momento, basta agganciare i pochi capannelli alla Camera o al Senato, parlare con i parlamentari, disincantati, smaniosi, rassegnati, oppure fare qualche telefonata ai leader o ai relativi uomini di fiducia, per essere sopraffatti dall’evidenza prepotente di questo dato di fatto: per Draghi la strada si è complicata, e di molto. Le ragioni sono semplici, ma non per tutti così semplici.

La prima è stranota. Draghi è una suggestione che si porta dietro troppi problemi. Sul premier che dovrebbe prendere il suo posto, sul format di governo che verrà dopo (politico o tecnico?), sulla maggioranza che sosterrà l’esecutivo. Il costituzionalista e deputato del Pd Stefano Ceccanti non si stanca di ripeterlo: «Qui in Parlamento Draghi non ha chance». Ogni giorno che passa e più ci si avvicina al giorno delle votazioni, il 24 gennaio, questo scenario mostra la sua problematicità, secondo Ceccanti. A un anno dal voto, con i contagi in costante aumento, con i gruppi spappolati e i parlamentari senza prospettiva di rielezione in un Parlamento che comunque sarà quasi la metà nella sua composizione, Draghi è considerato l’unica garanzia di sopravvivenza del governo ma soprattutto della legislatura.

Per due leader , più di altri, questo è uno scoglio non da poco. Giuseppe Conte ed Enrico Letta hanno capito di essere a rischio di ammutinamento interno. Entrambi ricordano quanto la mossa sbagliata sul Quirinale, nel 2013, costò la leadership del Pd a Pierluigi Bersani. Anche in quel caso il Parlamento si trovò in stallo totale e per uscirne dovette rivolgersi al presidente in carica Giorgio Napolitano, chiedendogli di restare. È la tesi di chi proverà a convincere Sergio Mattarella, nonostante il Capo dello Stato sia contrario a replicare il precedente.

Letta ha ceduto e ha ammesso che «il Mattarella bis sarebbe il massimo». Conte invece sembra voler rispettare anche nella forma le volontà del presidente e, spiegano fonti a lui vicine, non intende fare uno sgarbo a Draghi, creando un solco con il premier. In realtà non hanno valide e concrete alternative, da un punto di vista numerico, a Draghi (o a Mattarella). Detto questo, né lui né Letta hanno incoronato l’ex numero uno della Banca centrale europea. Conte, indebolito dal fronte parlamentare, attende la mossa del segretario del Pd, che a sua volta attende una decisione di Silvio Berlusconi. Il presidente di Forza Italia ha scombussolato i piani di tutti, frapponendosi tra Draghi e il Colle. Finché resterà in piedi il suo desiderio di essere eletto tredicesimo presidente della Repubblica italiana, finché l’illusione dell’aritmetica nelle prime quattro votazioni gli darà speranza, sarà complicato organizzare un piano B per gli alleati del centrodestra e far una mossa di senso politico compiuto per gli avversari.

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