Le mani dell’industria mineraria sui fondali dell’Oceano Pacifico

Monica Perosino

Lo scorso novembre, alla conferenza sul clima di Glasgow, le parole dei delegati dei piccoli Stati insulari (Aosis), i primi condannati a scomparire a causa del riscaldamento globale, avevano commosso e colpito il mondo. Tutti ricordano l’appello di Simon Kofe, delle Tuvalu, Stato insulare polinesiano nell’Oceano Pacifico, che aveva inviato un videomessaggio al mondo con le gambe immerse nel mare fino alle ginocchia per denunciare i rischi legati al cambiamento climatico: «Per noi, per le piccole isole – aveva detto – si tratta di vita o di morte».

Oggi, proprio una di quelle piccole isole minacciate dall’azione dell’uomo sulla natura, potrebbe cambiare – in peggio – la storia. Nauru, un puntino di foresta e spiagge bianche nell’Oceano Pacifico meridionale, 20 chilometri di superficie e diecimila abitanti, sta per spostare ancora un po’ più in alto – meglio dire in basso – il limite di sfruttamento delle risorse naturali.

Il presidente di Nauru, Lionel Aingimea, che grazie a una clausola della convenzione Unclos ha il controllo esclusivo su 75mila chilometri quadrati di fondali nella zona nordpacifica di Clarion-Clipperton (tra le Hawaii e il Messico), ha deciso che era il momento di sfruttarli, questi fondali. E si avvia, con una sussidiaria di The Metals Co (ex DeepGreen), la Nauru Ocean Resources, ad avviare – secondo una complessa catena di richieste e permessi – il progetto mineriario entro 18 mesi. Se Nauru riuscisse, come sembra, a mettere in atto il progetto, enormi bulldozer potrebbero scendere nell’ecosistema più grande e ancora incontaminato del mondo, il fondale marino, con danni irreversibili all’ecosistema. L’unico stop potrebbe arrivare dall’Isa, l’autorità internazionale dei fondali marini, che ha 18 mesi, appunto, per completare il suo “codice minerario” e (che avanza estremamente a rilento) e bloccare il progetto, ma che in 30 anni non è riuscita a stabilire nemmeno le regole per le estrazioni in alto mare.

Dalle acque profonde si estrarrebbero cobalto, rame, nichel e manganese – materiali chiave delle batterie – da rocce delle dimensioni di una patata chiamate «noduli polimetallici» che si trovano sul fondo del mare a una profondità di 4-6 km, che verrebbero risucchiati usando enormi macchinari subacquei.

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