Destini incrociati dei due presidenti

Marcello Sorgi

Per quanto sibillino possa essere stato, dividendo i suoi osservatori tra chi sostiene che alla sua maniera, senza muovere un dito, abbia compiuto un’altra tappa di avvicinamento al Quirinale, e chi invece obietta che se ne sia allontanato, il Draghi apparso ieri sera in conferenza stampa era molto diverso da diciannove giorni fa, quando nell’appuntamento di fine anno aveva praticamente annunciato la sua candidatura al Colle. Serio, brusco, inflessibile fino all’eccesso nell’evitare le domande sul Quirinale. Costretto a un “atto riparatore”, come lui stesso l’ha definito, dopo l’inaccettabile silenzio seguito mercoledì alla decisione del Consiglio dei ministri di introdurre l’obbligo di vaccino per gli ultra cinquantenni. E fermo nel denunciare ancora una volta le responsabilità dei non vaccinati nella diffusione del virus e nella continuazione dell’emergenza.

Perfino il quadro descritto è del tutto differente da quello più rassicurante fornito prima di Natale. E non perché allora, nel riassumere una situazione tutto sommato sotto controllo, l’avesse sottovalutata. Ma perché in venti giorni tutti i sintomi della pandemia di sono aggravati, dal numero dei contagi in crescita esponenziale agli ospedali ormai in sofferenza, alla necessità di accelerare la campagna vaccinale tenendo aperti anche la notte gli hub dedicati alle somministrazioni. La linea del governo non cambia e il rigore anti-Dad tenuto sulla riapertura delle scuole in presenza lo conferma: Draghi è convinto che occorra fare di tutto per non rassegnarsi alle chiusure e per evitare di veder di nuovo avvitarsi l’economia italiana. Ma dietro questi impegni, convalidati nel corso della conferenza stampa dai ministri dell’Istruzione Bianchi e della Salute Speranza e dal capo del Cts Locatelli (il dato più inquietante: ricoverati negli ospedali ci sono ventitré no-vax per ogni vaccinato), Draghi ha ammesso che il clima nella maggioranza è mutato e la ricerca dell‘unanimità tra le diverse forze che sostengono il governo è più complicata. Lo sforzo che lo ha costretto per due giorni a mediare prima di varare l’ultimo decreto ha cercato di riportarlo – non sempre riuscendoci in modo convincente – al normale compito del presidente del Consiglio. “Il governo va avanti”, ha detto e ripetuto. Ma la strada è in salita.

Proprio perché non ha voluto affrontare, sfiorando talvolta un tono autoritario che non gli si addice, l’argomento Quirinale, le domande rimaste in sospeso dopo un’ora di botta e risposta giravano intorno a quello. È stato contrario a discuterne perché si ritiene ancora in corsa, o perché, avendone parlato, ha involontariamente dato la stura a tutte le reazioni contrarie all’ipotesi di una sua elezione? Per rispondere si può solo riprendere il filo del suo ragionamento. Se il 22 dicembre aveva disegnato un bilancio positivo del governo, aggiungendo che sarebbe potuto andare avanti “indipendentemente” da lui, stavolta ha elencato una serie di lavori in corso che rendono più difficile immaginare che di qui a due settimane – tante ne mancano al 24 gennaio in cui sono convocate le Camere in seduta comune per eleggere il Presidente della Repubblica – Draghi possa lasciare il timone a chicchessia senza preoccuparsi del contraccolpo che ne seguirebbe.

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