Fisco, Draghi insoddisfatto davanti al muro dei partiti. Poi la mediazione per recuperare 300 milioni

di Monica Guerzoni

Chi lo conosce da sempre assicura che l’irritazione è uno stato d’animo che a Mario Draghi «non si addice», ma dal braccio di ferro coi suoi ministri sul fisco il capo del governo è uscito a dir poco «insoddisfatto». Non solo per il merito dello scontro sulla presunta «patrimoniale occulta» che il centrodestra rivendica di avere sventato. Quanto perché il governo, a cominciare dal Tesoro, ha mostrato una falla sul piano del metodo. E quando il premier ha provato, per dirla in volgare, a metterci una pezza, ha trovato il muro di quasi tutti i part iti.

Lega, Forza Italia, Italia viva e anche il M5S si sono opposti al tentativo di riaprire i giochi su una materia politicamente sensibile come il fisco. E hanno costretto Draghi a invertire la marcia sulla sterilizzazione dell’Irpef alla fascia di reddito sopra i 75 mila euro, da lui stesso proposta per andare incontro ai sindacati. Centrodestra e renziani sono stati compatti nel chiedere di non riaprire l’accordo, blindato con il ministro Franco nelle riunioni diurne e notturne in via XX Settembre. «Abbiamo sbagliato l’istruttoria lasciando fuori le parti sociali e quando Draghi si è reso conto che la maggioranza non reggeva ha cambiato in corsa, ma solo il Pd gli è andato dietro», è la sintesi di un esponente del governo che ha vissuto la giornata nera.

Dopo l’incontro di giovedì a Palazzo Chigi, il premier si era convinto che Landini, Sbarra e Bombardieri non sbagliano a chiedere di rivedere l’impianto della manovra fiscale a favore dei più poveri e ha cercato di aggiustare in corsa la linea. Ma la sterzata del premier a sinistra ha spaccato il governo, al punto che Draghi, tra la cabina di regia e il Consiglio dei ministri, ha dovuto rinunciare. Se non è una sconfessione, certo non è una prova di coesione. Il che, in vista di passaggi delicatissimi come l’approvazione della manovra e la votazione per il Quirinale, non dovrebbe lasciare tranquilli i leader dei partiti.

Al Nazareno è allarme, prova ne sia la durezza con cui il dem Misiani sottolinea la «scelta incomprensibile» di Renzi e compagni: «Lo stop a Draghi allontana Italia viva dal campo riformista». Ma per i collaboratori del premier il sospetto che i partiti abbiano mandato un segnale al tandem Draghi-Franco è semplicemente «inverosimile». Adesso però non è facile per Palazzo Chigi convincere che il tentativo di rosicchiare 300 milioni per alleviare il caro bollette non è l’esito di un sofferto dietrofront, bensì il frutto della mediazione «costante e pragmatica» di Draghi.

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