Cosa resta del pensiero

Donatella Di Cesare

Quale ruolo può avere ancora la filosofia in questo mondo senza fuori e senza oltre? Quale margine ha il pensiero, se a dominare è ovunque una diffusa exofobia, la paura e l’orrore per ciò che è esterno? Il mondo in cui viviamo ha fagocitato, bandito, distrutto ciò che è altro da sé, nella pretesa vana di restare indenne. In questo globo senza finestre del capitalismo in stato avanzato, dove di umano resta ben poco, ogni focolaio di resistenza immaginativa sembra esaurito.

Tanto più che l’esistenza è condannata al torpore sfinito dell’allarme prolungato, all’inesausto dormiveglia che non conosce notte. Qui regnano mancanza di sensibilità, privazione di memoria, difficoltà di riflessione.

Prima si poteva ancora speculare sulla fine della filosofia, o sulla fine della storia. Adesso la questione è la fine del mondo. Non è un mistero che i discorsi sulla “fine del mondo” vengano presi sul serio dalle scienze empiriche: climatologia, geofisica, oceanografia, biochimica, ecologia. La virata dell’umanità verso la catastrofe appare imminente.

Tremenda e imperscrutabile, la fine ha agitato nei secoli il mondo. Ma oggi ha un significato reale. E ciò dà il timbro a questo terzo millennio, un’epoca che si delinea in uno scenario apocalittico dove mancano risonanze teologiche e promesse politiche. L’apocalisse si profila in piena modernità laica e scientifica. Si fa strada l’idea che la morte del singolo potrebbe coincidere con la fine del mondo. Nulla resterebbe dopo, né il ricordo degli altri, né la memoria condivisa, né lascito, né eredità. Tutto terminerebbe per sempre, in un autosterminio, che è ben più di una semplice estinzione. Noi siamo oggi i primi a dover pensare di essere forse gli ultimi.

L’urlo prometeico minaccia di soffocare in un rantolo apocalittico. Sta qui, peraltro, l’enorme divario tra la conoscenza scientifica e l’impotenza politica, un’impotenza che, concentrata sul presente senza domani, procede di emergenza in emergenza.

Come può tutto questo non avere effetti sul pensiero, che è sempre un movimento dell’oltre, che si spinge sempre al di là. Pensare estranea, rende stranieri. Sono molte le voci filosofiche a dirlo – da Aristotele a Hannah Arendt. Che cosa resta allora della filosofia, questo territorio paradossale, abitato dall’atopia, dall’eccentricità, dal fuori-luogo?

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