Draghi e Colao, dateci la linea su Tim e la Rete

Massimo Giannini

In principio fu la Stet. “La madre di tutte le privatizzazioni”, come si disse all’epoca. Era il 1992: Giuliano Amato premier, Romano Prodi all’Iri. Tra le macerie di Tangentopoli, che trasformò le PpSs in una mangiatoia, il Libro Verde di Piero Barucci decretò la fine dello Stato Padrone. La mitica Sip si fuse con le partecipate pubbliche delle tlc e diventò Telecom. Poi venne il 1997: Prodi a Palazzo Chigi, Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, Mario Draghi alla Direzione generale. E la regina della telefonia pubblica passò definitivamente al mercato. Come certifica il Libro Bianco del Mef (pubblicato nel 2001), con la cessione del suo gioiello più prezioso l’Erario incassò 22.883 miliardi di vecchie lire, pari a 11,82 miliardi di euro.

A chi oggi si chiede cosa sia cambiato da allora, in questo sorprendente gioco di specchi che vede gli stessi protagonisti dell’epoca curiosamente e variamente coinvolti nel “Romanzo Quirinale”, ecco la risposta: dopo più di vent’anni, un grande fondo di investimento americano come Kkr, per portarsi a casa il 100 per 100 della stessa Telecom, ora tim, mette sul piatto 10,8 miliardi. Meno di quanto il Tesoro incassò nel ’97. È la prova di un’altra storia di ordinaria dissipazione industriale, perpetrata nella zona grigia che incrocia lo Stato e il Mercato. La “madre di tutte le privatizzazioni” ha figliato la qualunque. Public company fallite e “nocciolini duri” molli come il burro. Capitani coraggiosi e capitali pretenziosi. Soci spagnoli evanescenti e azionisti francesi impertinenti. Tanti capi-azienda, soprattutto. Nell’ordine: Roberto Colaninno, Enrico Bondi, Marco Tronchetti Provera, Renato Ruggiero, Carlo Buora, Franco Bernabè, Marco Patuano, Giuseppe Recchi, Amos Ghenis, Arnaud de Puyfontaine, Fulvio Conti.

Ora che si è fatto da parte anche l’ultimo amministratore delegato, Luigi Gubitosi, cosa resta di cotanta speme? Che fine farà la povera Tim, che per tipologia di business è pur sempre un asset strategico fondamentale per la nazione? Che ne sarà di una delle poche grandi aziende rimaste in Italia, che nel frattempo si è persa per strada metà del fatturato, 80 mila dipendenti e si ritrova in pancia una bomba da 23 miliardi di debiti? Domande cruciali. A fare le anime belle, le si potrebbe liquidare facendo spallucce. È un affare di mercato, lo risolva il mercato. È il lato più inquietante e seducente del capitalismo schumpeteriano, che crea-distrugge-ricrea. Se un’azienda diventa contendibile, vuol dire che chi la gestisce non sa estrarne tutto il valore possibile. E questo, nella parabola discendente di Tim, è stato sommamente vero. Certo, nell’ultimo decennio il settore ha sofferto ovunque, sul fronte dei ricavi: in Germania sono calati dell’8 per cento, in Francia del 16, in Spagna del 26. Ma in Italia è andata molto peggio: meno 32 per cento, da 44,8 a 28,5 miliardi.

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