Sì al suicidio assistito, svolta storica in Italia. “Sollievo, sarò il primo”

Federico Capurso

“Mario” è un nome di fantasia. Usato per difendere la privacy e la dignità di un uomo delle Marche, malato tetraplegico immobilizzato a letto da 10 anni. È stato usato per la prima volta sulle pagine di questo giornale, lo scorso agosto, in calce a una lettera in cui chiedeva alla politica di aiutarlo a vedere riconosciuto il suo diritto al suicidio assistito. Il ministro della Salute Roberto Speranza rispose, sempre dalle pagine di questo giornale, sostenendo le sue richieste. Poi qualcosa si è mosso. E oggi, finalmente, Mario ha vinto la sua battaglia: è il primo malato in Italia a ottenere il via libera al suicidio medicalmente assistito.

«Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni», fa sapere. La strada per poter mettere fine alle sue sofferenze ha riservato tanti, troppi ostacoli da superare. Da oltre un anno Mario chiedeva all’azienda ospedaliera locale che fossero verificate le sue condizioni di salute per poter accedere alla somministrazione di un farmaco letale. E aspettare un anno di tempo, per chi soffre ogni giorno, equivale a una vita. Si era rifiutato di andare a morire in Svizzera o in un altro Paese che riconoscesse il suicidio assistito, perché è suo diritto morire in Italia, nelle Marche. Per poter godere di questo suo diritto, nell’ultimo anno ha però dovuto fronteggiare un primo diniego dell’Azienda sanitaria unica regionale delle Marche (Asur), oltre a due decisioni definitive del tribunale di Ancona, ed è stato costretto a ricorrere a due diffide legali all’Asur. Dopo l’estate, dopo le lettere e l’aiuto sempre offerto dall’associazione Luca Coscioni, il Comitato etico si è mosso per verificare le sue condizioni, tramite la relazione di un gruppo di medici specialisti nominati dall’Asur, e ha confermato che Mario possiede i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito. Quattro condizioni essenziali, dettate nel 2019 dalla sentenza «Cappato-Dj Fabo» emessa dalla Corte Costituzionale: è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili; è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda.

La sentenza della Consulta ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, ma «nessun malato ha finora potuto beneficiarne, perché il servizio sanitario si nasconde dietro l’assenza di una legge che definisca le procedure», punta il dito Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. La battaglia è così andata avanti tra le aule dei tribunali e sui media, fino a questa vittoria. Manca ancora, però, la definizione del processo di somministrazione del farmaco letale. Un percorso tortuoso dovuto alla paralisi del Parlamento che ancora, a tre anni dalla richiesta della Corte costituzionale, non riesce a votare una legge che stabilisca le procedure da seguire. «Il risultato di questo scaricabarile istituzionale – accusa Cappato – è che persone come Mario sono costrette a sostenere un calvario giudiziario, in aggiunta a quello fisico e psicologico dovuto dalla propria condizione».

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