Perché Draghi non farà la riforma delle pensioni

Nella piccola (piccola perché la posta in gioco è irrisoria) trattativa in corso tra il ministero dell’Economia e i partiti della maggioranza sulle pensioni è sfuggito il dato di fondo: cosa pensa di fare davvero Mario Draghi. La questione non impatta solo sui margini della trattativa, ma sul senso stesso della discussione. Anzi proprio perché il premier ha le idee molto chiare, l’esito delle interlocuzioni vale davvero poco: è una necessità politica per il Governo, insomma bisogna mettere d’accordo Pd, Lega, 5 stelle, Forza Italia e LeU per chiudere la manovra, ma non è la cosa più importante. Vista dalla prospettiva dei partiti è l’ennesimo tentativo di strappare qualche bandierina e di festeggiare poi una mediazione come una vittoria. Solo che forse non hanno capito che qui c’è poco da festeggiare perché il risultato se lo porterà a casa Draghi ed è l’esatto opposto di quel “non ritorno alla Fornero” che tutti, dal Carroccio ai dem, reputano essere invece l’unica via d’uscita. 

Il ritornello delle pensioni come il grande ostacolo al suo mandato accompagna Draghi dal primo giorno in cui ha messo piede a palazzo Chigi, ma fin da allora non hai mai pensato ad alcuna riforma organica. Ad archiviare la quota 100 leghista sì, ma proprio ripristinando il regime della Fornero. Dove Fornero è la riforma delle pensioni approvata nel 2011 dal governo Monti. In venti giorni. I tempi li dettò l’Europa. E Draghi. Quattro mesi prima del via libera del Consiglio dei ministri al decreto Salva-Italia, che contiene la riforma sulle pensioni, fu Draghi, che stava per raccogliere il testimone di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea, a firmare insieme proprio a Trichet una lettera inviata al governo italiano presieduto da Silvio Berlusconi. Il governo di centrodestra cadde, al posto del Cavaliere arrivò Monti. E la traccia della lettera di Draghi diventò legge. La missiva raccomandava all’Italia di intervenire nel sistema pensionistico “rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012”. 

Basta guardare alla riforma Fornero per capire come quell’impostazione fu tradotta in norme. Lo strumento fu la valutazione periodica dell’incremento della speranza di vita a cui collegare l’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia. L’esito, invece, l’innalzamento del requisito dell’età a 67 anni. La riforma nacque per esigenze istantanee di finanza pubblica perché l’Italia rischiava il default, ma anche per contenere la spesa pensionistica e riportarla su livelli sostenibili a lungo termine. Dieci anni dopo Draghi la pensa allo stesso modo. Per questo via quota 100, costata fino ad ora 11,6 miliardi (la proiezione di spesa al 2030 è di 18,8 miliardi in tutto), scelta tra l’altro poco dai lavoratori (341mila uscite), fallimentare nell’obiettivo di aumentare l’occupazione giovanile dato che non si è arrivati affatto a tre assunzioni per ogni uscita. Ma più dei soldi spesi e dell’impatto che ha avuto, quota 100 non è mai piaciuta al premier e non piace tantomeno ora che sta per cestinarla perché mette a repentaglio il contenimento della spesa previdenziale. 

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