Noi, prigionieri del governismo

Massimo Cacciari

A ogni tornata elettorale, sono ormai più o meno trent’anni, si ripete lo stucchevole rito del “chi ha vinto-chi ha perso”, quando ormai è chiaro che il voto dei residui elettori, tolta una parte che va dileguando di tipo ancora “identitario”, è del tutto fluttuante, completamente estranea alle vecchie faglie parlamentari di destra, centro e sinistra. Si fatica a comprendere la nuova situazione culturale e politica in cui viviamo. Una situazione in cui nell’opinione pubblica dominano la “cura” per le ricorrenti emergenze, che solo a livello sovra-nazionale possono essere affrontate, e la irreversibile delusione, dopo i fallimenti delle “riforme” costituzionali, nei confronti di ogni strategia di riassetto istituzionale fondato sul ruolo delle autonomie e una visione federalistica dello Stato. La funzione del lavoro intellettuale, se mai ve n’è una, non consiste nel fotografare lo stato delle cose, tantomeno nel farne apologia o nel deprecarlo; essa consiste nell’individuare la logica interna delle tendenze in atto e a che cosa queste possano condurre. Spesso tale logica viene oscurata o mistificata da ragioni contingenti di convenienza politica, altrettanto spesso si evita di fare i conti con essa e viene ignorata. Il lavoro critico, senza alcuna presunzione anticipatrice, con sobrietà e freddezza, è chiamato a metterla in luce e a responsabilizzare nei suoi confronti. Ora, le tendenze di fondo sembrano chiare. Di fronte a “stati di emergenza” che si ripetono, e certamente si ripeteranno in futuro su scala ancora più larga, derivanti dal rapido mutare degli equilibri internazionali, dalla riconversione dell’apparato economico-produttivo, dalla “sfida ecologica”, i principi dell’equilibrio tra legislativo ed esecutivo, della divisione dei poteri, del ruolo delle autonomie (nel senso più vasto, non solo amministrativo), sembrano diventare sempre più residui di un mondo di ieri. L’accentramento decisionale trova in queste “fisiologiche emergenze” non solo una spinta formidabile, ma, sembra, anche un’innegabile giustificazione. La delega all’esecutivo si fa prassi costante, e sempre più il momento della ratifica diviene formale. La delega all’esecutivo diviene delega perché esso legiferi tout court. La tendenza – che comporterebbe, al limite, la trasformazione dello “stato di emergenza” in “stato di eccezione” (quello che è proprio di una situazione di guerra) – viene al momento vissuta con incredibile leggerezza: chi si limita a giustificarla in base alla congiuntura, chi ne garantisce la provvisorietà e promette il rapido ritorno allo stato “normale”, e chi ancora magari la depreca, ma da un punto di vista moralistico, astratto, senza capirne la potenza. Manca totalmente un pensiero critico e democratico che affronti questa logica delle cose (assai poco vichianamente provvidenziale, temo) per cercare di mostrarne le ultime, possibili conseguenze e per opporvisi dall’interno con idee costituzionali, giuridiche, politiche coerenti e praticabili. E come potrebbero, d’altra parte, maturare visioni alternative nell’assenza di partiti politici? Una volta erano le dittature a distruggerli – oggi si sono auto-disciolti in obbedienza alla cultura dominante.

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