Geopolitica del clima impazzito

MASSIMO GIANNINI

Non c’è più tempo, gridano in coro Mario Draghi e Joe Biden, mentre in America bruciano le sequoie millenarie, guardiane preziose e perdute della memoria geologica del pianeta. Non c’è più tempo perché quelli climatici non sono più cambiamenti prevedibili, ma sconvolgimenti irreversibili che noi umani osserviamo accidiosi, mentre sul solito ponte del Titanic sorseggiamo il nostro cocktail effervescente di stolide chiacchiere e buoni propositi. L’orchestrina dei G7 e dei G20 continua a suonare, e mentre il surriscaldamento globale desertifica 23 ettari di territorio al minuto, altera il 75 per cento delle terre emerse e minaccia di estinguere un milione di specie animali e vegetali, noi aspettiamo giulivi il nostro pranzo di gala. Ma il futuro, come la rivoluzione di Mao, non è un pranzo di gala. Dopo averne tanto ragionato ai tavoli che contano, tocchiamo adesso con mano che la transizione ambientale ha costi sociali ed economici immensi.

La Conferenza di Parigi pare un gigantesco falò delle velleità. Passano i mesi, e gli obiettivi vanno in fumo alla stessa velocità con la quale ardono le Grandi Pianure a est delle Montagne Rocciose e a ovest del Mississippi, inaridite e battute da un sole impietoso e da un vento impetuoso. È il moderno “Furore” degli elementi. Ricorda quello raccontato da John Steinbeck negli Anni Trenta, quando i primi “rifugiati climatici” fuggivano disperati dalla Dust Bowl. I rapporti Onu sono chiari. Il 38 per cento della superficie terrestre è a rischio desertificazione. Come disse già nel 2010 Luc Gnacadja, responsabile ambiente delle Nazioni Unite, “i primi 20 centimetri di suolo sono tutto ciò che si frappone tra noi e l’estinzione”.

Non li stiamo difendendo, quei 20 centimetri. Il Global Warming asseta il pianeta. Un esempio: la più grande fonte idrica del mondo, la falda di Ogalalla, che si estende dal Sud Dakota al Texas, si ridurrà del 70 per cento nei prossimi cinquant’anni. Se questo accade, secondo gli esperti ci vorranno 6 mila anni di piogge per riempirla di nuovo. Noi stessi, con i nostri insediamenti energivori e i nostri comportamenti carnivori, stiamo contribuendo a generare le future pandemie. Un altro esempio: in Malesia e nel Borneo si radono al suolo le foreste pluviali per produrre legno e olio di palma. Questo spinge i pipistrelli della frutta, in cerca di cibo, ad avvicinarsi alle città e agli allevamenti di suini. Così i parassiti dei pipistrelli infettano i maiali, che poi contagiano gli allevatori. È successo nel 1998, con il virus Nipah. Forse è risuccesso anche oggi, con il Covid-19. Ridurre di un grado e mezzo la temperatura del globo, abbattere le emissioni di CO2, riconvertire le produzioni energetiche da petrolio e carbone a solare ed eolico: tutto sembrava alla portata, tutto sta sfuggendo di mano. Abbiamo scoperto quasi all’improvviso che la rivoluzione verde è bellissima, ma farà morti e feriti. Anzi, li sta già facendo, visto che il cambio di paradigma appena avviato su scala globale sta producendo la stangata sulle tariffe di gas e di elettricità per famiglie e imprese. Il premier italiano ha ragione quando avverte che non possiamo dilazionare e ritardare questa trasformazione, perché l’umanità ne pagherebbe conseguenze devastanti. Ma ha ancora più ragione quando sottolinea che questa transizione così rapida costerà lacrime e sangue in termini di bolletta energetica, e quindi imporrà agli Stati l’obbligo di proteggere le categorie più deboli. A partire dal ceto medio impoverito, che tra la crisi finanziaria del 2007 e la crisi sanitaria del 2020 sta pagando il tributo più alto in termini di discriminazione ed esclusione sociale.

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