L’Italia dei partiti deboli

di Angelo Panebianco

E adesso chi fermerà i maremoti? Il declino americano preannuncia l’arrivo di tempeste. Anche in Occidente, anche in Europa. È perché i più sono convinti che le democrazie europee non siano in grado di provvedere autonomamente alla propria sicurezza che si invoca la difesa comune o comunque una qualche forma di più stretta integrazione su scala continentale. Ma le democrazie europee non sono tutte uguali. Nessuna può fare da sé, certamente. Ma non tutte sono ugualmente disarmate di fronte ai rischi e alle minacce internazionali. Per un insieme di ragioni. Contano le risorse che ciascuna democrazia può investire in sicurezza, contano le diverse tradizioni, contano i differenti assetti istituzionali. Forse la «risorsa» più importante è data dal grado di coesione nazionale di fronte ai pericoli e alle sfide internazionali. Da questo punto di vista, se prendiamo come termini di confronto le altre grandi democrazie europee, dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Spagna, si può constatare che l’Italia è nelle condizioni peggiori: il suo sistema politico non favorisce, anzi esalta la mancanza di coesione. Non ci si faccia ingannare dalla attuale tregua: il governo Draghi non durerà in eterno. Prima o poi si tornerà alla normale dialettica politica e allora tutte le magagne dovute al combinato disposto di un insieme frammentato di partiti fragili, con un debole radicamento sociale, e di un assetto costituzionale da «democrazia assembleare» (con governi istituzionalmente deboli), torneranno a manifestarsi.

S i ricordi il quindicennio in cui, a partire dal 1994, l’Italia ha conosciuto l’alternanza fra coalizioni contrapposte. Fu un’epoca di intensissima polarizzazione. Berlusconiani contro antiberlusconiani con tutta la violenza (fortunatamente solo verbale) che quella contrapposizione portò con sé. Un clima, a tratti, quasi irrespirabile. Chiunque non fosse disposto a schierarsi, più o meno acriticamente, con una delle due coalizioni, era visto e trattato alla stregua di un «traditore» da entrambe. Pochi però hanno notato che nonostante quel clima, sulla politica estera c’era convergenza fra centrosinistra e centrodestra: funzionava, tacitamente, una sorta di bipartisanship. Nessuna delle due coalizioni mise mai in discussione l’appartenenza alla Alleanza Atlantica, nessuna rifiutò l’integrazione europea. C’erano ovviamente differenze di stile ma la sostanza era quella di una convergenza politica che, al netto di tutte le feroci divisioni sui problemi interni, alimentava la coesione nazionale di fronte al mondo esterno. E ciò fu tanto più notevole per il fatto che il personale politico di entrambe le coalizioni si era formato ai tempi della Guerra fredda, delle grandi divisioni ideologiche (fra comunisti e anticomunisti), delle opposte «scelte di campo».

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