L’Occidente tra ipocrisia e Apocalisse

Massimo Giannini

Le promesse da talebano sono durate mezza giornata. La faccia buona dei mullah era un bluff ad uso delle famose e fumose Cancellerie, la conferenza stampa con gli smartphone era cortina fumogena per i pochi giornalisti rimasti. Bin Laden è morto, Saddam Hussein è morto, ma Haibatullah Akhundzada e il Mullah Baradar sono più vivi che mai. E in fondo, vent’anni dopo, non sono poi tanto cambiati. I rastrellamenti casa per casa dei collaborazionisti, la caccia alle ragazzine non ancora sposate, persino le esecuzioni sommarie dei “traditori”. In Afghanistan è tornata l’Apocalisse. Kabul è un inferno che brucia. Si spara e si muore per strada. E quegli uomini abbarbicati sul carrello degli Hercules che precipitano nel vuoto dopo il decollo, quelle donne che urlano il loro terrore dalle cantine in cui si sono rinchiuse, quelle madri che lanciano i loro figli oltre il filo spinato gridando “salvate almeno loro”: ecco, tutto questo è ciò che resta della “guerra giusta” contro il cosiddetto Asse del Male tra il 2001 e il 2002. Questo 8 settembre americano, questo Joe Biden che scappa come il generale Badoglio, secondo il racconto magistrale di Domenico Quirico. E questi eserciti Nato che lo seguono alla spicciolata. Lasciando lì una montagna di macerie, e qui un fiume di ipocrisie.

Che l’operazione Enduring Freedom lanciata dopo l’eccidio delle Torri Gemelle sia stato “un fallimento epocale finito in maniera umiliante” (come ha titolato il New York Times) è tema di discussione solo nel pollaio italiota. Dopo quel colpo al cuore di Manhattan, e dunque dell’intero Occidente, le democrazie ferite avevano il diritto e il dovere di difendersi. Ma già allora sapevamo che l’attacco all’Afghanistan era una reazione istintiva e non risolutiva.

Già allora sapevamo che i bombardamenti a tappeto su Tora Bora non avrebbero annientato le basi del fondamentalismo jihadista, che non si nascondeva al buio di quelle grotte ma incubava alla luce del sole, nelle banlieue delle nostre città. Già allora sapevamo che non uno dei 19 kamikaze delle Twin Towers era afgano. Ma bisognava rispondere in qualche modo all’offensiva di Al Qaeda. Bisognava trovare a annientare Bin Laden, dopo averlo foraggiato per anni con i petrodollari delle monarchie del Golfo, quando faceva comodo per sostenere la guerriglia anti-sovietica. Così ci siamo armati e siamo partiti, al seguito del Commander in Chief di Washington, riparandoci almeno in quell’occasione sotto l’ombrello dell’Onu e dell’Alleanza Atlantica. Ma non ci bastò. E subito dopo l’Afghanistan toccò all’Iraq, dove superammo noi stessi. Senza uno straccio di prova, credemmo di nuovo a Bush Junior e alla favola delle “armi di distruzione di massa” in mano a Saddam. E ci intruppammo entusiasti nella “Coalition of the Willing”, sulla base di una inesistente “Yellow Cake” irachena fabbricata ad arte e con dolo dai servizi anglo-americani. Una bufala vergognosa e smaccata, che Bush e Blair vollero a ogni costo e che non bastò a fermare neanche noi italiani brava gente, in quel caso aggregati al Comando Britannico con l’operazione Antica Babilonia voluta dal governo Berlusconi (lo stesso che oggi strilla ‘hanno sbagliato tutto’).

Ci hanno raccontato, e molte anime belle ci hanno anche creduto, che con queste due invasioni avremmo “esportato la democrazia”, dove per anni avevano regnato il terrorismo islamico e la dittatura manipolata dal Corano. Un’impostura, con tutta evidenza. Perché esportare la democrazia come fosse un container è folle, come provò a dire Joseph Nye che suggeriva di sostituire l’Hard Power delle armi con il Soft Power dei valori. E perché comunque non era quello che interessava all’America, né ai volonterosi che la seguirono. Interessava mostrare i muscoli dopo l’attentato alle Torri Gemelle, il più devastante della Storia moderna, e questo è comprensibile. Ma interessava soprattutto riprendere il controllo delle forniture energetiche, come scrisse allora Tiziano Terzani nella sua celebre lettera a Oriana Fallaci: “Il grande interesse per l’Afghanistan è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei Paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno, in questi giorni, ha ricordato che ancora nel 1997 due delegazioni degli ‘orribili’ talebani sono state ricevute a Washington per trattare di questa faccenda…”. Niente di nuovo sotto il sole, se è vero che Baradar, dopo l’arresto a Karachi, era stato appena liberato su ordine di Trump, per negoziare a Doha le condizioni della ritirata. Sono le geometrie variabili dell’Occidente Americano: oggi sei il mio miglior amico, domani il mio peggior nemico, dopodomani chissà.

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