Per l’Italia di Draghi il test internazionale

MARCELLO SORGI

La crisi afghana con i suoi delicati risvolti internazionali ha avuto tra i suoi effetti quello di proiettare in primo piano Draghi, e per suo tramite l’Italia, in un momento tra i più difficili e complicati da gestire. Sia per le conseguenze immediate, come l’ipotesi per niente irreale di un’ondata di profughi da gestire, sia per quelle a medio termine, il mutamento degli equilibri globali dovuto alla precipitosa ritirata da Kabul degli Usa e delle forze Nato. Oltre all’intenzione, ormai chiaramente manifestata da Biden, di ridimensionare il ruolo guida tradizionalmente assolto da Washington sullo scenario mondiale.

Abituata a galleggiare in contesti simili muovendosi all’ombra della tradizionale diarchia europea Francia-Germania e nel solco di un atlantismo burocratico, l’Italia si trova invece a confrontarsi in prima linea con i problemi nuovi posti dalla rovinosa disfatta in Afghanistan e dal precipitoso imporsi dei taleban, non da attori protagonisti insieme ad altre forze interne, come previsto dai recenti (e traditi) accordi di Doha, che dovevano disciplinare il ritiro ordinato della forza multinazionale, ma come padroni assoluti del campo. E il premier italiano deve farsi avanti consapevole che i due maggiori alleati europei, Merkel e Macron, sono indeboliti, l’una da un’uscita di scena prossima e annunciata, che lascia presagire una successione più debole, e l’altro da una scadenza elettorale in cui la riconferma all’Eliseo non è affatto garantita. Tocca a Draghi, dunque. E cosa abbia in testa SuperMario lo si è capito dall’intervista al Tg1 che ha segnato il suo ritorno in scena, dopo la breve vacanza d’agosto in cui, in sua assenza, il dibattito politico era immediatamente sceso di tono.

Si tratta, in primo luogo, di recuperare gli Usa, evitando di unirsi ai toni più mediocri del coro anti-Biden e cercando di distinguere tra gli effetti imprevisti di una mossa propagandistico-elettorale (il ritiro affrettato da Kabul per evitare la coincidenza, l’11 settembre, con il ventesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle) e le ragioni di fondo, che restano, della rete dei rapporti occidentali. Per dirla nel linguaggio corrente della politica nostrana, è l’esatto contrario dell’affermazione del segretario Pd Letta secondo cui “la democrazia non si esporta”. Se non la si fosse esportata, anche al prezzo delle armi e della perdita di vite umane, la storia contemporanea sarebbe stata diversa. A cominciare da quella italiana della caduta del fascismo e della nascita della Repubblica democratica. Il secondo dovere dell’Italia è di partecipare dignitosamente al G7 che sarà convocato con al centro proprio la crisi afghana, e al G20 di cui ricopre temporaneamente la presidenza. È in questi due ambiti – e non nel pollaio delle dichiarazioni di Salvini e Meloni contro la ministra dell’Interno Lamorgese e del mettere le mani avanti sui profughi “pochi e buoni”, che possono essere accolti, a dispetto di quelli a cui a nessun costo dev’essere offerta ospitalità -, che la questione della solidarietà a chi fugge dal regime talebano dev’essere affrontata.

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