Mattarella entra nel «semestre bianco»: cosa significa, perché fu scritta questa norma, e cosa prevede?

di Marzio Breda

Dal 3 agosto il presidente Mattarella non potrà sciogliere le Camere: se cade il governo resta un’opzione estrema. Storia di una norma nata per timore di un golpe «legale»

«Un piccolo colpo di stato legale». Era questo il pericoloso scenario che Renzo Laconi, membro dell’Assemblea costituente per il Pci, tratteggiò davanti ai colleghi impegnati con lui a scrivere la nostra Magna Charta se non fosse stata tolta ai capi dello Stato la facoltà di sciogliere le Camere durante gli ultimi sei mesi del loro mandato. Secondo l’esponente comunista sardo, infatti, c’era «il rischio» che un presidente in scadenza congedasse il Parlamento soltanto «per aver prorogati i propri poteri e avvalersi di questo potere prorogato per influenzare le nuove elezioni».

Dubbi e diffidenze a futura memoria. Uno scrupolo maturato sull’idea che fosse necessario tutelare al massimo l’appena nata democrazia italiana. Per Laconi serviva insomma una norma che fungesse da antidoto in grado di rendere non praticabili tentazioni manovriere e di stampo autoritario da parte di un presidente, chiunque fosse. Il quale presidente, se le cose fossero invece rimaste come si era fino a quel momento previsto, avrebbe potuto esercitare pressioni o addirittura sbarazzarsi in anticipo degli inquilini di Montecitorio e Palazzo Madama, per far eleggere assemblee a lui più favorevoli e confidare magari in un secondo mandato.

Era più che altro una suggestione. Ma allora — si era tra il 1946 e il gennaio del ’48 — i timori di un fascismo risorgente in nuove forme erano ancora diffusi. E bastarono a far approvare di corsa il secondo comma dell’articolo 88, nel quale si introduceva il «semestre bianco» con cui da domani dovrà fare i conti Sergio Mattarella. Un «buco nero», lo hanno definito (senza troppa fantasia cromatica), perché annichilisce l’arma più forte della quale il capo dello Stato dispone. Cioè la minaccia di spedire tutti a casa, nel caso si materializzi una crisi senza uscita. Ipotesi non del tutto peregrina, considerate le sempre meno latenti tensioni nella maggioranza.

Mattarella deve averci pensato sopra, visto che il 2 febbraio scorso, mentre si preparava ad affidare l’incarico di governo a Mario Draghi, trovò modo di rievocare la frustrante esperienza di un suo predecessore, Antonio Segni. Ricordò che nel 1963 lo statista sassarese aveva inviato un messaggio alle Camere in cui spiegava come fosse «opportuno introdurre in Costituzione il principio della non immediata rieleggibilità del presidente della Repubblica», puntualizzando che «il periodo di sette anni è sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato».

Segni aveva aggiunto che la sua proposta, oltre a «eliminare qualunque, sia pur ingiusto, sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione», imponeva un altro, conseguente passaggio. «Abrogare» la disposizione che mutila il potere di scioglimento quando il settennato di un presidente sta per concludersi. Il fatidico semestre, appunto, rimasto sempre intatto. Unica eccezione, una modifica funzionale votata dal Parlamento nel 1991, per evitare «l’ingorgo istituzionale» che si crea quando la fine di una legislatura coincide con la fine di un incarico al Quirinale (avveniva con Cossiga «regnante»).

E qui è inevitabile porsi una domanda. Il «semestre bianco» ha ancora senso? «Non ne ha molto» per l’ex presidente della Consulta Valerio Onida, il quale rammenta come i capi dello Stato «non sono mai diventati finora quel che poteva spaventare i costituenti, e ciò rappresenta quasi una garanzia… Senza calcolare che, al di là del problema della rieleggibilità, non è comunque vero che possano sciogliere le Camere come e quando vogliono, a loro discrezione». Opinione condivisa da Giovanni Maria Flick, anch’egli emerito della Consulta, che considera il semestre bianco «superato e contraddetto dai fatti», ossia dalla interpretazione «elastica ma, nella sostanza costituzionalmente corretta, alla quale si sono tenuti i capi dello Stato». Di preoccupante, per lui, c’è semmai «la prospettiva che adesso scatti nei partiti una logica da liberi tutti con rincorsa a litigare, a costo di rompere l’alleanza di governo, nella poco responsabile convinzione che tanto Mattarella non può fare niente».

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