Non scherziamo con la prescrizione

Vladimiro Zagrebelsky

La prescrizione dei reati è divenuta terreno di discussione in ambito politico, non solo per la fase in cui si trova la relativa riforma (Parlamento, dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri), ma anche per i facili e contrapposti slogan che permettono all’una e all’altra forza politica di sventolare bandierine identitarie. Il livello del dibattito, quando semplicemente non è adeguato alla serietà del tema, è ora offeso dal prevalere di considerazioni puramente politiche sui tempi e modi di risoluzione del garbuglio in cui il governo si è cacciato. Il governo e la sua eterogenea maggioranza -anche profondamente, ma senza averne la parvenza- stanno cercando di modificare gli effetti della legge che va sotto il nome del ministro Bonafede (di eliminazione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado). All’esito dei lavori della Commissione ministeriale Lattanzi, la soluzione adottata e portata in Consiglio dei ministri, come base di successivi affrettati interventi per consentire ai ministri 5Stelle di approvarla, consiste nell’aggiungere al decorso dei termini di prescrizione del reato, una specie di prescrizione del processo che conduce alla improcedibilità se il processo non si conclude entro due anni in appello e poi un anno in Cassazione. Quei termini sono allungati per certi reati (come la corruzione), ma definiti in astratto, senza considerazione della maggiore o minore gravità del fatto in concreto e della complessità dei processi che, caso per caso, li riguardano. Basta pensare a un processo per corruzione, che può vedere imputato chi è stato fotografato o sorpreso con la mazzetta in mano oppure un altro con uno o più imputati in una articolata vicenda di passaggi di denaro all’estero con difficili perizie finanziarie e necessità di collaborazione di stati esteri. E il giudizio della Corte europea dei diritti umani cui si pretende di richiamarsi, conformemente a ciò che suggerisce il buon senso, segue certo qualche automatismo nel definire i tempi ragionevoli, ma considera sempre le circostanze (complessità, interessi in gioco, ecc.) che rendono possibili tempi più brevi o giustificano tempi più lunghi.

In più il meccanismo adottato assegna un’importanza determinante all’operare delle Corti di appello, diverse delle quali sono ora ben lontane dal livello di efficienza richiesto per rimanere nei termini che la legge dovrebbe fissare. La conseguenza è che un imputato condannato in primo grado potrebbe facilmente vedere vanificata la sua sentenza con una sopravvenuta improcedibilità in appello, che lascerebbe senza risposta la domanda sulla innocenza o colpevolezza. E così un imputato assolto in primo grado con una sentenza appellata dal pubblico ministero. Se nei due anni non sopravvenisse la sentenza della Corte d’appello, la sentenza di assoluzione cadrebbe nel nulla della improcedibilità che colpirebbe il processo (anche se si prevede che l’imputato possa rinunciare allo scattare della improcedibilità). Il tutto mentre il reato in sé non è prescritto. Non prescritto, ma non giudicabile! Le conseguenze negative sono facilmente immaginabili sulla posizione dell’imputato e su quella delle parti offese: queste ultime costrette a sopportare una loro nuova corvée giudiziaria per ottenere soddisfazione.

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