Quelle vite prigioniere e l’algoritmo Quelle vite prigioniere e l’algoritmo

Lungo la filiera ordine-stoccaggio-trasporto-consegna, fanno strage quotidiana di legalità e dignità. Un settore già in forte sviluppo, che dal 2008 è cresciuto a ritmi del 20 per cento l’anno, fino a raggiungere gli 80 miliardi di ricavi e a coprire il 15 per cento delle vendite al dettaglio.

Con il lockdown l’aumento è diventato impetuoso. Ma lo è diventato anche lo sfruttamento della manodopera. Ritmi sempre più elevati, diritti sempre più conculcati. Lavoratori assunti come finti soci di cooperativa, per lucrare su tasse e contributi. Accordi aziendali stracciati, con tanti saluti a riposi, ferie, malattia. Salari decurtati, con tanti saluti all’anzianità e ai minimi contrattuali. E poi ricatti e soprusi, caporalato e razzismo (l’80 per cento degli occupati è di origine africana). È così dappertutto. Da Lodi a Biandrate, da Castel San Giovanni a Burago Molgora. Noi lo sappiamo. Noi, comodi nei nostri uffici e nelle nostre case, che riceviamo spesso in “real time” i pacchi ordinati solo poche ore prima. Noi, seduti sulle poltrone del cinema, che ci siamo commossi a guardare “Sorry, we missed you”, l’ultimo capolavoro di Ken Loach, il racconto amaro della non-vita di queste non-persone, inchiodate a uno scanner, controllate a ogni pausa e a ogni respiro, obbligate a pisciare in una bottiglietta di plastica per non interrompere il servizio.

Noi sappiamo ormai quasi tutto, di quella che alcuni mesi fa Le Monde battezzò la “amazzonizzazione” dell’economia globale, perché Amazon ne incarna allo stesso tempo tutto il bene e tutto il male. Intendiamoci, quello costruito da Jeff Bezos non è l’inferno che è costato la vita a Belakhdim. Ma è all’ombra di quell’impero (dove esiste comunque un’enorme questione di garanzie) che è ormai proliferato il Far West. È all’insegna di quel modello (capace di sfornare solo nell’ultimo trimestre del 2020 una torta da 125,6 miliardi di vendite nette) che i cowboy tutti intorno si litigano a qualsiasi costo le briciole. Lo ripeto: noi lo sappiamo. Ma facciamo finta di niente. Diamo la mancia, all’Invisibile che ci consegna il cartonato con l’inconfondibile “baffo nero” orizzontale. E ci mettiamo l’anima in pace. Finché l’Adil di turno non crepa sotto le ruote del camion di uno come lui, che voleva difendere. O finché centinaia di Adil non si riempiono di bastonate tra loro, davanti ai cancelli di una fabbrica dove dovrebbero stare i leader dei sindacati confederali, e magari i capi dei partiti progressisti, come un tempo Berlinguer a Mirafiori. E invece non c’è niente. Solo la paura, solo la rabbia.

C’è un pezzo di establishment che considera tutto questo “fisiologia del mercato”. È il “Grande Reset” del capitalismo globale, come lo chiamano fior di economisti, dal presidente del World Economici Forum Klaus Schwaab alla direttrice del Fondo Monetario Internazionale Kristina Georgieva. È il nuovo paradigma del rapporto tra capitale e lavoro nel post-pandemia, dopo la quale “nulla sarà più come prima”. Giustissimo: ma a vantaggio di chi? Ai primi di aprile il Financial Times ha dedicato un bel reportage all’Italia, che tra logistica e rider può diventare “la prossima frontiera delle battaglie del lavoro nella Gig Economy”. Verissimo: ma a quale prezzo? È davvero ora di investire un po’ in umanità, come scrive Elsa Fornero. Le mezze riforme fatte finora non bastano. Servono controlli e contratti. Servono politiche attive e tutele effettive.

Dopo la tragedia di Novara il solito cuore d’Italia vibra di dolore e di sdegno. Sono addolorati Fico e Casellati. È addolorato Draghi, che chiede di “far luce sull’accaduto”. Con tutto il rispetto, signor presidente del Consiglio, quello che è accaduto l’altroieri, sull’asfalto insanguinato di Via Guido il Grande, lo abbiamo visto tutti. È su quello che accade da mesi dentro quei centri logistici, dentro quei capannoni, dentro quegli interporti, che dovremmo “far luce”. È a quei poveri cristi che si sbattono ogni giorno e ogni notte per un piatto di minestra, che dovremmo dare risposte. Risposte degne della seconda manifattura d’Europa. Risposte all’altezza di un Paese civile. L’altroieri ero ad Alba, per un dibattito organizzato da Confindustria Cuneo: si fa fatica anche solo a immaginare che in Italia, insieme a territori così ricchi di talenti, eccellenze, gioielli di relazioni industriali e di welfare aziendali, esistano terre di nessuno senza Stato e senza legge. Abitate da una massa anonima e resiliente che sta scivolando nella marginalità sociale, senza aspettare l’ora fatidica dello sblocco dei licenziamenti. Un pezzo di ceto medio impoverito e incollerito che vive male, anche se permette a noi consumatori di vivere meglio. A queste persone, almeno a loro, non possiamo dire “basta con i sussidi, mettetevi in gioco”. Lo stanno già facendo. E purtroppo è un gioco al massacro.

LA STAMPA

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